Cronistoria dell’Italia coloniale

di Davide Quaresima del 02/04/2017

L’Italia ha alle spalle una storia millenaria, ricca di eventi e di figure intramontabili, con un patrimonio culturale superiore a qualsiasi altro paese al mondo, ma da una non esaltante storia coloniale.
Se si adopera un’analisi attenta, si può osservare come l’odio sviluppatosi in tante zone del mondo sia legato ai molti paesi degli ex-imperi. Sicuramente l’Italia non rientra nel novero dei grandi paesi colonialisti. Fra questi ultimi possiamo citare Gran Bretagna, Francia, Spagna, ma non la nostra penisola.
Se si ricercano le motivazioni, una buona analisi deve prendere avvio dall’epoca moderna, tra la metà del XV secolo e l’epoca napoleonica. L’Italia alla fine del quattrocento era uno dei paesi più ricchi d’Europa, sia dal punto di vista culturale (Umanesimo e Rinascimento presero avvio nel nostro paese per poi influenzare tutto il continente), ma anche dal punto di vista economico e commerciale. Fra i più attivi mercanti dell’occidente europeo vi erano veneziani e genovesi, questi ultimi famosi soprattutto per via delle loro operazioni bancarie e di prestito a favore dei grandi regnanti del tempo, mentre la posizione geografica – con un Mediterraneo ancora al centro dei traffici internazionali – era (ed è tuttora) molto pratica. Purtroppo le continue battaglie fra le città stato, guidate dalle potenti famiglie, furono un primo colpo al nostro paese. Nel 1513 un abilissimo osservatore politico del suo tempo come Machiavelli, aveva già intuito le difficoltà della penisola, avversità che ci saremmo portati dietro fino a metà dell’800.
In questo lasso di tempo di circa tre secoli e mezzo l’Italia rimase divisa e alla mercé delle grandi potenze europee, divenendo un luogo estraneo alle nascenti reti commerciali che nel frattempo si andavano affermando nel mondo, e che avrebbero poi contribuito in modo decisivo alla formazione dei moderni imperi coloniali. Questa marginalità,  rese l’Italia un paese periferico per la sua frammetazione politica, rendendolo ammirato e considerato unicamente a livello culturale. Tali fattori furono decisivi per comprendere il tardivo e limitato movimento coloniale italiano, la cui storia è molto recente e spesso, purtroppo, se ne ignorano alcuni aspetti fondamentali.
La seconda metà dell’ottocento fu un’era ricca di eventi dal punto di vista geopolitico. Tutti i paesi volevano possedere un impero coloniale da sfruttare come sbocchi per le proprie merci e in cui poter mandare manodopera in eccesso; per questo motivo preferivano acquisire terre lungo rotte molto frequentate, non disdegnando di scatenare conflitti per arrecare danni ai propri rivali e trarne ovvi vantaggi territoriali. Dopo l’apertura del Canale di Suez nel 1869 le previsioni di ingenti guadagni legati allo sviluppo del commercio nel Mediterraneo portarono molti paesi ad interessarsi alle terre lungo il Mar Rosso e al Golfo di Aden e fra questi paesi, vi era anche il Regno d’Italia. 
 

Nella prima immagine di destra, l’inaugurazione – da parte francese – il 17 novembre del 1869, dell’apertura del Canale di Suez. Nell’immagine centrale, vista satellitare del canale, fino al corno d’Africa. Nell’ultima planimetria cartina politica dell’Eritrea: prima colonia del regno d’Italia.

La prima penetrazione italiana in Africa avvenne nel 1882, un ventennio dopo l’unità del paese. L’aspetto politico è quanto mai necessario per tali azioni, difatti il nostro paese guardava impassibile gli altri imperi coloniali, sognando di possederne anch’esso una sua porzione. Le motivazioni alla base del colonialismo italiano furono prevalentemente di prestigio; aspirare ad un impero coloniale era un qualcosa di legittimo e per molti era sentito come un dovere. L’Italia avrebbe dovuto rappresentare il paese civile che diffonde la sua cultura e la sua ricchezza intellettuale al paese “sottosviluppato”. Per il Regno d’Italia le motivazioni economiche erano ovviamente importanti, ma non erano le uniche; il complesso di inferiorità di cui soffrivamo nei confronti delle altre potenze doveva essere curato.
Ovviamente non tutti nel nostro paese erano concordi verso un’azione del genere. Il mondo militare e quello della borghesia meridionale erano favorevoli all’espansione coloniale; mentre il clero (che condannava più che altro il Paese in quanto “laicista e liberale”), la borghesia settentrionale e i socialisti si schieravano su posizioni opposte, come il deputato socialista Andrea Costa, il quale nel 1887 asserì dopo la sconfitta di Dogali come: “né un soldo né un uomo per le pazzie africane”.
Le mire italiane ricaddero inizialmente sulla Tunisia, terra a noi geograficamente vicina, sperando in una conquista abbastanza agevole. Purtroppo però nel paese africano si stabilì un protettorato francese, che nei fatti tagliò fuori l’Italia, alimentando la frustrazione nel non essere riusciti a conquistare quella terra. Questo evento è passato alla storia come lo “Schiaffo di Tunisi”, l’antica Cartagine. 
A seguito di un episodio così tanto sconveniente il governo italiano decise di agire prontamente e di dirigersi verso terre nel continente africano ancora non possedute da nessuno. Fra le motivazioni di tanta fretta vi era anche quella di gestire manodopera in eccesso sul suolo italiano.
In quegli anni stava iniziando una vera e propria spartizione del continente, passata alla storia per la sua violenza e velocità con il nome di scramble for Africa (sgomitare per l’Africa) che avrebbe portato i paesi europei in un ventennio a divorarne tutto il territorio. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale solo l’Etiopia si poteva ancora definire indipendente.
La scelta perciò ricadde nel 1882 sull’Eritrea, striscia di terra lungo il Mar Rosso. Ma anche in questo caso la politica coloniale italiana fu tutt’altro che felice. Difatti, a pochi passi da queste terre vi era il grande Impero Etiope, una compagine territoriale molto vasta e potenzialmente pericolosa per i domini italiani. Il territorio era retto da due Negus (Re): a nord vi era il Negus Neghesti (“Re dei Re“) Giovanni IV, a sud invece il territorio era retto da Menelik II, tristemente conosciuto da tutti sui libri di scuola per la cocente sconfitta inferta alle forze italiane comandate dal tenente generale Oreste Baratieri ad Adua, nel 1896. Nel 1885, d’accordo con la Gran Bretagna, l’Italia occupò Massaua in Eritrea, che dal 1890 formerà con Assab la Colonia Eritrea. Nel 1869 la Baia di Assab (Eritrea) era stata acquistata dalla compagnia privata del genovese Raffaele Rubattino al fine di fornire uno scalo per i rifornimenti di carbone alle sue navi, cedendola poi al Governo italiano nel 1882. In realtà il nostro paese si era interessato in un primo momento a dei territori nel Pacifico, nel Borneo e in Nuova Guinea; progetti che infine non si tradussero mai in realtà, preferendo non interferire negli equilibri internazionali tra Inghilterra e Olanda (tanto che di lì a poco il Borneo settentrionale, l’attuale stato di Sabah nella Malesia, sarebbe stato inglobato dall’impero britannico).
La prima sconfitta arrivò a Dogali, il 26 gennaio 1887, a seguito di una penetrazione italiana nell’altopiano etiope. La colonna del tenente colonnello De Cristoforis venne accerchiata dagli uomini del ras Alula e completamente annientata. Persero la vita 500 bersaglieri. L’eco suscitato nel paese a seguito della sconfitta fu enorme; persino Bismark fece tuonare le sue critiche. Tra il 1889 e il 1892, grazie ad una serie di trattati, il nostro paese riuscì ad istituire dei protettorati sul Sultanato di Obbia e su quello della Migiurtinia; nel 1892 il sultano dello Zanzibar concesse dei porti nel Benadir fra i quali è opportuno ricordare Mogadiscio, capoluogo della zona. Di conseguenza, nel giro di pochi anni anche l’Italia aveva delle terre nella regione. Due mesi dopo la morte del Negus Giovanni IV (marzo 1889) venne firmato il Trattato di Uccialli, tra Menelik – oramai imperatore e Negus Neghesti –  e il conte Antonelli, rappresentante di Re Umberto I e fornitore di armi all’Etiopia.
Il trattato con il quale venne sancito questo rapporto fra il Regno d’Italia e il Regno Etiope venne scritto in due lingue: in italiano e aramaico (la lingua utilizzata nel paese), e da parte del nostro paese venne interpretato in maniera completamente differente. A generare problemi e controversie fu l’articolo 17, che nelle due lingue citava:
• “Sua maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del governo di sua maestà, il Re d’Italia per tutte le trattazioni d’affari che avesse con altre potenze o governi” (versione italiana);
• “Il Re dei Re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera con i regni d’Europa mediante l’aiuto del Regno d’Italia” (versione etiope).
Per l’Italia era a tutti gli effetti un protettorato; per Menelik un affronto: la guerra era nell’aria. Mentre in Italia si vivevano giorni di fuoco, alimentati anche dallo scandalo della Banca Romana e dal ritorno in politica di Crispi, si decise di penetrare in Etiopia (o Abissinia). Fu un’azione disordinata e poco curata dal governo italiano che sottovalutò le forze nemiche, molto più numerose e ben armate (dal conte Antonelli, appunto).
La disfatta di Adua suscitò un grande scalpore in Europa. Per la prima volta un esercito africano era riuscito a schiacciare nettamente truppe europee; la paura più grande adesso era quella di una possibile presa di coscienza da parte del popolo africano nei confronti dei loro “padroni” e, quindi, di possibili loro rivolte contro gli stessi. Per il nostro paese, Adua significherà un grande mutamento politico che spazzerà via la classe dirigente risorgimentale in maniera definitiva. Ci furono rivolte e sommosse da parte dei ceti popolari che decisero perfino di scendere in piazza. La tensione per crisi economica si sommò alla figuraccia di Adua; il governo Crispi terminò qui.
Dal 1901 al 1943 l’Italia gestì una striscia di terra lungo il fiume Hai-Ho, la Concessione di Tientsin (porto di Pechino). Non si trattò di un grande possedimento (erano in totale 457.800 m²), e se si vanno a guardare le mappe della zona appare più uno striminzito lembo di terreno incastrato fra quelli ben più grandi delle altre super potenze. Le ragioni che portarono il Regno d’Italia ad ottenere questa Concessione risalgono alla Rivolta dei Boxer (1899-1901), la quale scoppiò in Cina a causa di un gruppo di nazionalisti chiamatisi inizialmente “Pugno della giustizia e della concordia” oramai stanchi delle ingerenze straniere nel loro paese. Fin da subito i rivoltosi vennero identificati come “Boxer” per via della parola “pugno” nel loro nome, derivante dal fatto che i ribelli avevano spesso come basi operative delle scuole di kung fu. L’Italia partecipò con l’Alleanza delle otto nazioni (Gran Bretagna, Stati Uniti, Russia, Giappone, Austria-Ungheria, Germania e Francia) alla soppressione dell’insurrezione e, a partire dal 7 giugno 1902, le venne riconosciuta la zona di Tientsin.
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Nella prima immagine, planimetria di Tientsin – possedimento italiano in Cina. Nella foto centrale fanteria montata italiana in Cina durante la Rivolta dei Boxer. Nella foto di destra la piazza Regina Elena a Tientsin con il Monumento ai Caduti e la colonna della Vittoria.

Nel periodo in cui si approntava il Corpo, la Regia Marina spedì in avanscoperta le unità navali dell’incrociatore Fieramosca e le Regia Nave “Vesuvio” e “Vettor Pisani“, le quali cariche di quattro compagnie di fanti di marina, comandati dell’ammiraglio Risolia. Il Corpo di Spedizione partì la sera del 19 luglio 1900 e dopo aver sostato a Port Said (il 23 luglio), ad Aden (il 29) e a Singapore (dal 12 al 14 agosto), giunse a Taku il 29 agosto 1900. Una volta sbarcato il personale percorse in treno i 150 chilometri che lo separavano da Pechino.  Il contingente internazionale nominò il 26 settembre quale comandante generale il Feldmaresciallo tedesco Alfred von Waldersee. Tale nomina incontrò le forti resistenze di Francia e Gran Bretagna, meno dal Regno d’Italia. Al contingente militare italiano fu affidato il presidio di un quartiere nei dintorni della caserma Huang Tsun. A detta delle cronache gli scontri, i saccheggi e le repressioni in tale zona furono minori che in altri quartieri. Al contingente militare italiano venne inoltre affidato il compito di contrastare le ultime resistenze all’interno della Cina. Il 2 settembre furono conquistati i forti di Chan-hai-tuan con 470 uomini su tre compagnie, due di bersaglieri e una di fanti di marina. In un’altra occasione il contingente militare francese occupò il villaggio di Paoting-fu, in contrasto con gli ordini di von Waldersee che prevedevano l’affidamento dei luoghi a un contingente misto tedesco e italiano. Garioni anticipò il contingente militare francese riuscendo, alla guida di 330 uomini, ad anticipare l’occupazione della cittadina Cunansien originariamente affidata ai francesi.

Il rientro in Italia del Contingente ebbe inizio nell’agosto 1901. Due compagnie di bersaglieri fecero ritorno nel 1902, mentre le restanti compagnie, unite in un battaglione misto, rimasero in Cina sino al 1905 e fecero ritorno con la Perseo della Compagnia Florio Rubattino nell’agosto 1905.

Durante la permanenza in Cina del Corpo di spedizione italiano, rimane la ricca testimonianza di due ufficiali “fotografi”: Il tenente medico Giuseppe Messerotti Benvenuti di Modena (al centro) armato di una Kodak e il tenente Luigi Paolo Piovano di Chieri con una Goertz (a sinistra). Entrambi non mancheranno di fotografare anche gli orrori della repressione, ovvero le fucilazioni, le decapitazioni, le gogne e le macerie. Nella foto di destra: truppe della Alleanza delle otto nazioni, Tianjin 1900.

Con il Trattato di Pace del 7 settembre 1901, venne ottenuta la Concessione italiana di Tientsin, una zona di 450.000 m², costituita da un terreno lungo il fiume ricco di saline, un villaggio e un’ampia area paludosa adibita a cimitero. Dopo un periodo di disinteresse, fu avviata una bonifica. La presenza italiana perdurò sino al 10 settembre 1943, quando le truppe giapponesi occuparono Tientsin e fecero prigionieri civili e militari italiani.
Formalmente il dominio italiano dell’area venne riconosciuto fino al Trattato di Parigi del 1947, ma di fatto l’occupazione giapponese nel 1943, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, aveva già tolto la zona dalle disponibilità italiane.
Tornando verso il mediterraneo e in maniera specifica in nord-Africa, oggi si parla spesso nei telegiornali del problema migranti, della Libia e delle altre terre insanguinate dal fondamentalismo islamico, delle misure che possono essere prese al fine di proteggere l’Europa dagli attacchi dell’ISIS. L’Italia è senza dubbio al centro di tali questioni che la legano indissolubilmente alla terra libica. Gli stessi rapporti fra Berlusconi e Gheddafi ci portano a riconsiderare le relazioni che la nostra penisola ha avuto nel corso del tempo con questa zona sempre particolarmente calda dal punto di vista geopolitico.
L’Italia nel settembre 1911 dichiarò guerra al decadente Impero Ottomano per la conquista di due regioni, Cirenaica e Tripolitania, che successivamente, nel 1934, avrebbero formato insieme ad altri possedimenti la colonia di Libia. La guerra, che terminò nell’ottobre del 1912, permise all’Italia di conquistare anche le isole del Dodecaneso. Con il Trattato di Losanna nel 1912 venne inoltre riconosciuto dalla Turchia il possesso italiano delle zone appena conquistate, comprese le isole nel Mar Egeo, non più rivendicate dal paese sconfitto.

Mappa che mostra i movimenti militari del regio-esercito italiano nella regione che oggi chiamiamo Libia. Nell’immagine centrale una stampa raffigurante i combattimenti durante le conquiste contro l’esercito ottomano. Nella foto di destra, bersaglieri al riparo di una trincea durante gli scontri vicino Sidi Messri.

Questo conflitto fu importante sotto vari punti di vista. Innanzitutto, fu appoggiato in pieno dalla Francia che così sperava di limitare la presenza britannica nella zona. Come vediamo, ancora una volta si preferisce avere accanto un nemico di “serie B” come l’Italia piuttosto che la potenza inglese. Inoltre, la campagna di Libia mise in mostra le difficoltà dell’Impero Ottomano, una compagine oramai in piena decadenza, sulla quale le forze balcaniche avrebbero potuto avere gioco facile in un eventuale conflitto. Infine, questa guerra va ricordata per i progressi tecnologici in campo militare che vennero utilizzati. Fu il primo conflitto nel quale si utilizzarono automobili (prodotte dalla FIAT); fecero la loro comparsa gli aeroplani, anche se siamo lontani ancora dal loro utilizzo massiccio come avverrà invece nella Seconda Guerra Mondiale. Infine, si registra l’utilizzo della radio al fine di permettere una migliore cooperazione fra le truppe, con Guglielmo Marconi che collaborò con il regio-esercito. Dopo il Trattato di Losanna l’impero coloniale italiano contava Eritrea, Somalia italiana (prima protettorato, poi dal 1908 colonia), Libia e isole del Dodecaneso.
Abbiamo già detto in precedenza come, al termine della spartizione dell’Africa nell’ultimo ventennio dell’800, solamente l’Impero Etiope, assieme al piccolo stato della Liberia, fosse rimasto indipendente. In Italia l’avvento della rivoluzione fascista, poi sfociata in regime, riuscì per poco tempo, ad occupare anche questo territorio e ad istituire successivamente l’Impero.
A seguito del primo conflitto mondiale l’Italia era riuscita ad ampliare leggermente alcuni suoi possessi in Somalia ed in Libia e le mire verso i territori nei Balcani e in Africa naufragarono nel vuoto. Sul finire degli anni ’20 il nuovo Capo del governo Benito Mussolini, leader del partito nazionale fascista, rispolverò il progetto imperialista – mai sopito – richiamandosi nei suoi discorsi all’antico e glorioso impero romano. Con un passato così importante alle spalle era inconcepibile che l’Italia non possedesse un impero, mentre paesi come la Gran Bretagna o la Francia avessero terre in Asia e Africa; addirittura il piccolo Portogallo veniva accusato di avere un impero tropo esteso rispetto alle sue dimensioni.
La scelta ricadde sull’Abissinia, perché la sua annessione avrebbe rappresentato un ottimo colpo, permettendo all’Italia di rafforzare la sua presenza nella regione ai danni delle altre potenze (Gran Bretagna e Francia in primis). Inoltro la nazione italiana nel 1935 era in piena recessione economica, per le politica errate del regime, il quale – dopo tre rivoluzioni industriali – aveva attuato il progetto di uno Stato rurale. Tale recessione poteva essere superata solo con un conflitto bellico che facesse smuovere l’economia del paese. Vi era, in aggiunta, la remota possibilità di connettere il territorio etiope con quello libico, divisi dal Sudan anglo-egiziano. La conquista di Khartoum avrebbe consentito di collegare le colonie italiane nel Corno d’Africa con la Cirenaica e dare così una grossa spallata ai guadagni economici britannici nella zona, isolando praticamente l’Egitto. Inoltre, era quanto mai necessario vendicare la cocente sconfitta operata da Menelik nel 1896.
Si presentavano però anche notevoli difficoltà. La zona era nevralgica per l’economia inglese, e la loro presenza nella regione non li avrebbe visti certo indifferenti di fronte ad un’azione del genere da parte dell’Italia. Inoltre, le truppe etiopi, mediante guerriglia, avrebbero reso la conquista del territorio estremamente difficoltosa. Infine, l’Etiopia era dal 1923 membro della Società delle Nazioni, e un’azione militare di un membro contro un altro membro avrebbe portato a dure sanzioni.
L’articolo XVI dell’organizzazione citava: “se un membro della Lega ricorre alla guerra[…]sarà giudicato ipso facto come se avesse commesso un atto di guerra contro tutti i membri della Lega, che qui prendono impegno di sottoporlo alla rottura immediata di tutte le relazioni commerciali e finanziarie, alla proibizioni di relazioni tra i cittadini propri e quelli della nazione che infrange il patto, e all’astensione di ogni relazione finanziaria, commerciale o personale tra i cittadini della nazione violatrice del patto e i cittadini di qualsiasi altro paese, membro della Lega o no”. 
Il 3 ottobre 1935 l’Italia dichiarò guerra all’Etiopia. Per la prima volta, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, un paese europeo rompeva l’ordine postbellico. Mussolini seppe sfruttare abilmente un attacco operato dagli etiopi un anno prima a Ual Ual, nel quale 80 italiani persero la vita nel cercare di difendere la postazione. Il dispiegamento di truppe fu imponente; perfino gli aerei giocarono un ruolo decisivo nelle sorti del conflitto. I combattimenti terminarono l’anno seguente, quando Vittorio Emanuele III venne incoronato Imperatore d’Etiopia, il 9 maggio del 1936. Da questo momento sarebbe più opportuno parlare di Africa Orientale Italiana (A.O.I.), comprendente Impero Etiope, Eritrea e Somalia Italiana.

I Regi corpi truppe coloniali (RCTC) erano dei corpi delle forze armate del Regno d’Italia nei quali vennero raggruppate tutte le truppe di ogni colonia, fino alla fine della seconda guerra mondiale in Africa. Tali truppe dipendevano direttamente dai governatori delle colonie italiane. Erano corpi autonomi pluriarma, con unità di fanteria, artiglieria, cavalleria e genio proprie. Dal 1924 ai RCTC di Tripolitania e Cirenaica e alle forze armate dell’AOI vennero aggregate le legioni e battaglioni della Milizia Coloniale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Tutti gli Ufficiali erano nazionali del Regio Esercito, i sottufficiali sia nazionali che indigeni, mentre la truppa era nella quasi totalità composta da eritrei, somali, etiopi, libici ed in piccola parte yemeniti e sudanesi. Queste truppe furono impiegate su tutti i fronti africani a partire dalla guerra d’Eritrea e dalla guerra di Abissinia, poi nella guerra italo-turca, fino riconquista della Libia. Nella campagna di conquista dell’Etiopia il RCTC d’Eritrea fornì un intero Corpo d’armata eritreo. Nel 1940 erano presenti 182.000 ascari nell’Africa Orientale Italiana e 68.000 nazionali, mentre 74.000 ascari erano di stanza in Libia durante la seconda guerra mondiale.

Nei cinque anni nei quali l’Italia gestì questo territorio vennero costruite strade, porti e ferrovie, ma anche scuole, ospedali ed acquedotti, favorendo l’inizio dell’industrializzazione; venne inoltre regolamentata la caccia e incentivata la protezione ambientale nei territori dell’A.O.I. Purtroppo però, il mito degli “italiani brava gente” può essere facilmente smentito osservando le feroci rappresaglie operate dai militari e le armi da essi utilizzate nei territori appena conquistati: gas asfissianti ed iprite vennero rivolti contro civili inermi, così come i molti campi definiti “della morte” in Libia, dove la gli internati erano ridotti alla fame e a dure fatiche: un lato oscuro e triste nella storia coloniale italiana. Da capire come, le vessazioni verso la popolazione indigena erano perpetrate in tutte le nazioni europee sia in africa che in asia e questa pratica – oggi condannata giustamente da tutte le nazioni democratiche – era considerata “normale”; anzi sotto i possedimenti italiani le angherie – soprattutto dopo aver allontanato il generale Graziani – erano molto meno pesanti che nei possedimenti anglo-francesi. L’Italia ebbe il merito di aver costruito di più tra tutte le potenze coloniali europee. 
A seguito dell’attacco all’Etiopia le sanzioni della Società delle Nazioni non tardarono ad arrivare il 6 ottobre del 1935. Si trattava di limitazioni economiche che vietavano l’esportazione di prodotti italiani all’estero e l’importazione di prodotti utili per la continuazione della guerra in Africa. Il tutto non fece altro che accentuare le politiche autarchiche mussoliniane, provocando grossi danni ad alcuni settori della nostra industria e costringendo quindi molti contadini a dover lasciare il paese per cercare fortuna e terra in Africa, investendo per le infrastrutture di queste regioni piuttosto che per quelle del Mezzogiorno.
Per la prima volta nella storia, la Società delle Nazioni multava un paese membro. Purtroppo però le sanzioni vennero facilmente aggirate, e paesi che al comitato le avevano decise e successivamente votate, alla fin fine si astennero dal rispettarle. La Società delle Nazioni nacque con un onorevole obiettivo, evitare con ogni mezzo altre guerre e sconvolgimenti: questo fu uno dei suoi più clamorosi insuccessi (addirittura le sanzioni verranno revocate da lì a sette mesi). La sua presa di posizione nei confronti dell’Italia non fece altro che velocizzare l’avvicinamento tra il nostro paese e la Germania di Hitler.
Dal 7 aprile 1939 anche l’Albania venne annessa all’impero, mentre Kosovo, parte della Macedonia e del Montenegro furono aggiunti nel 1941. Nel 1940 si provò ad includere anche il Somaliland (Somalia britannica), ma già l’anno successivo queste zone, compresa la Somalia Italiana e gli altri territori dell’Africa orientale, vennero occupate una volta per tutte dagli inglesi, decretando la fine dell’A.O.I.
L’Italia coloniale si ritrovò subito – fin dal 1940 – nell’impossibilità di combattere una guerra pari a quella del nemico, il quale disponeva dei carri armati: armamento e materiale bellico che il regio-esercito non aveva e che non poteva perforare. Inoltre i britannici avevano la possibilità di ricevere continui approvvigionamenti (dati dal vasto impero coloniale), mentre il nostro contingente africano era isolato completamente: l’esito fu scontato, nonostante gesti eroici come quello di Amedeo Guillet o di Amedeo di Savoia duca d’Aosta.

L’immagine ritrae la battaglia di Culqualber, combattuta in Abissinia (l’attuale Etiopia) dal 6 agosto al 21 novembre 1941 fra italiani e britannici. Eroica la resistenza dei reali-carabinieri del regio-esercito.

Diverse le vicende in Libia (e in Tunisia), persa nel 1943 ad opera delle forze alleate nella Campagna del Nord Africa. Nello stesso anno anche i territori nei Balcani subirono un forte ridimensionamento mentre le isole nel Mediterraneo vennero formalmente perse poiché passarono sotto il controllo tedesco dopo l’8 settembre.
Da questo momento sarebbe sbagliato parlare di Impero coloniale. In Italia la situazione era completamente degenerata e tutti i progetti di Mussolini potevano dirsi tramontati. Il progetto di unificazione fra i territori dell’A.O.I e la Libia avrebbe sicuramente permesso all’Italia di essere determinante negli equilibri della zona, assicurandole il controllo di Suez e degli introiti ad esso connessi. Purtroppo però l’inefficienza degli approvvigionamenti e alcuni errori militari degli alti comandi, giocarono un ruolo decisivo e l’Italia si trovò a dipendere sempre di più dall’alleato tedesco.  Nel 1947, con il Trattato di Parigi, il nostro paese venne spogliato ufficialmente di tutti i suoi possedimenti.
Un’ultima parentesi, anche se di poco conto, si ebbe in Somalia (comprendente adesso anche i territori della vecchia Somalia britannica), la quale ci venne affidata per dieci anni in amministrazione da parte delle Nazioni Unite nel 1950 fino alla costituzione della Repubblica indipendente di Somalia (1960).

Concludo con questa frase di Ferdinando Martini, che forse riassume le prospettive italiane in ambito coloniale: “Si dice che gli italiani non sanno mai quello che vogliono, ma su certi punti sono irremovibili: vogliono la grandezza senza spese, l’economia senza sacrifici e le guerre senza morti. Il disegno è stupendo, forse è difficile da effettuare.”

 

Per approfondimenti:
_Emanuele Felice, Ascesa e declino. storia Economica d’Italia
_Sabbatucci-Vidotto, Storia contemporanea. Il novecento

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