19 Mar Stefano Rodotà: Lettura giuridica sul diritto d’amore
di Miriana Fazi 19/ 03/ 2017
Tra gli scaffali d’una libreria mi sono imbattuta in un volume di modeste dimensioni e dalla copertina di colore rosso vermiglio. Il titolo, al contempo laconico e denso, dà voce a un’endiadi ideale di parole diverse, ma irrimediabilmente connesse tra loro: diritto e amore. L’autore, nel primo capitolo, s’interroga su quale sia il rapporto che intercorre tra gli anzidetti vocaboli, che al giorno d’oggi sembrano non avere molto in comune.
“Diritto e amore sono compatibili, pronunciabili insieme, oppure appartengono a delle logiche conflittuali, tanto che l’uno e l’altro tentano di sopraffarsi? Il diritto è stato usato come sistema di neutralizzazione dell’amore, quasi che, lasciato a se stesso, l’amore rischiasse di dissolvere l’ordine sociale?”.
A una prima analisi la risposta sembra essere affermativa. Il diritto, per esigenze legate alla propria natura, richiede uguaglianza, regolarità, uniformità. È evidente come le sue premesse di fondo divergano da quelle che sottendono alle ragioni dell’amore. In effetti, volgendo il pensiero a un avveduto Montaigne, torna subito alla mente la definizione che questi diede alla vita: “un movimento ineguale, irregolare e multiforme”.
Se si facessero convergere amore e vita in un solo significato di più ampio respiro, sarebbe semplice individuare la netta antitesi che si pone tra questi termini e la parola “diritto”, intesa nella maniera precedentemente proposta.
Dunque, bisogna concludere che “l’amore è allergico alle goffagini del diritto civile”, come notava il giurista francese F. Terré, nella sua opera “Fait-on un bon droit avec de bons sentiment?” Sembra di sì, considerato che il diritto ha spesso confinato l’amore senza legge in uno stato d’eccezione. Si pensi, per esempio, alla disciplina codicistica del diritto di famiglia. Nella modernità occidentale, fino a tempi piuttosto recenti, il vincolo giuridico del matrimonio si basava su un rapporto tra coniugi innestato su alcune categorie tipiche del diritto patrimoniale. Prima tra queste, “la proprietà”: ciascun coniuge vantava un diritto sul corpo dell’altro.
In seconda istanza, “il credito”; giacché il diritto di esigere prestazioni sessuali connotava la relazione matrimoniale, all’interno della quale compariva il “debito coniugale”.
Tuttavia, com’è noto ai più, la posizione dei coniugi non godeva della parità che ad oggi qualifica le parti contraenti in altri rami del diritto. Basti pensare che l’error virginitatis (la mancata verginità della donna al momento della consumazione, ndr) rendeva nullo in radice il matrimonio stesso. La ragione che in passato sorreggeva tale pretesa va individuata nel fatto che un errore sulle “qualità personali del coniuge” non sembrava conforme a quella logica monogamica fondata sull’esclusivo possesso di una donna.
Tuttavia Ludovico Mortara, presidente della Corte d’Appello di Milano, in una sentenza del 1911 si espresse con un’opinione dissenziente rispetto all’ideologia ben radicata al tempo e più risalente.
Questi evidenziò come <<Elevare la verginità fisica della donna a qualità essenziale, il cui difetto, se non è stato prima dichiarato, diviene causa di annullamento delle nozze, significa abbassare il matrimonio a livello di un contratto commutativo, nel quale l’oggetto principale sarebbe costituito dal corpo degli sposi; vuol dire estendere al matrimonio i principi della garanzia che il venditore deve al compratore per i vizi e i difetti occulti della cosa venduta, assegnando precisamente al difetto di verginità la funzione di un vizio redibitorio, per la quale si considera la sposa deflorata non atta a raggiungere i fini del matrimonio; nello stesso modo che si soleva nel Medioevo subordinare la validità dei contratti di compra-vendita delle schiavette di Levante e Barberia alla condizione che la giovane fosse “non fatta” ma “sana, integra in tutte le sue parti e senza macchia”>>.
Può l’amore essere associato alla subordinazione?
Nel 1942, all’alba delle discettazioni sulla nuova codificazione civile, il celebre giurista Francesco Carnelutti si espresse in questi termini : << Lo ius in corpus o in corpore dell’un coniuge verso l’altro è più vicino che non sembri al diritto nascente per l’imprenditore verso il lavoratore del contratto di lavoro>>. Dunque, considerate simili costruzioni culturali, è agevole comprendere il motivo per il quale nel codice civile del 1942 al “marito” venisse ancora assegnato il ruolo di “capo famiglia” ex articolo 144 c.c., rimasto in vigore fino alla riforma del 1975.
La lettera dell’art 144 c.c. disponeva << Il marito è il capo della famiglia. La moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo ovunque egli crede di fissare la sua residenza>>.
Questa corrente di pensiero all’epoca dominante spiega la difficoltà della Corte Costituzionale nel cancellare la discriminazione tra le diverse condizioni del marito e della moglie in caso di tradimento. In danno del primo non erano previste pene, contrariamente a quanto accadeva per la seconda, che era imputabile di “reato d’adulterio”.
In ogni caso, sembra che un composito gruppo di giuristi avversasse la condizione paritaria di uomo e donna finanche nel matrimonio . Tra questi figuravano Vittorio Emanuele Orlando, politico e fondatore del diritto pubblico italiano; Piero Calamandrei e Francesco Saverio Nitti.
Per approfondimenti:
_Diritto d’amore -Stefano Rodotà.
_Teoria generale del diritto – F.Carnelutti
_Politica e amore – A. Tonelli
_Fait-on un bon droit avec de bons sentiments – F. Terré
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