Il patriota Marc Bloch: lo storico che amò la verità

di Giuseppe Baiocchi 28/02/2017

Nel campo accademico della storiografia Marc Léopold Benjamin Bloch è una leggenda, sia per quello che è stato in vita, ma anche per come ci ha lasciato. Lo storico francese sembrava il perfetto borghese del novecento: pacato, con baffi e occhialini tondi da intellettuale. Diversamente dietro l’apparenza – come vedremo – vi era qualcosa di inaspettato. Marc Bloch nasce nel 1886 a Lione, per via di suo padre – professore all’università – e quasi subito si trasferisce a Parigi: patria per eccellenza nel campo dell’istruzione.
Il giovane ragazzo cresce nel clima parigino, dove studia in uno dei grandi licei della capitale, il “Louis-le-Grand” e successivamente entra presso “l’École normale supérieure”. Tutto è nella norma, tranne un dettaglio: quel cognome che suona tedesco: Bloch. Difatti proviene dall’Alsazia (Alsace) e la famiglia dello storico è di origine ebraica: quando nel 1870, dopo la guerra franco-prussiana, il Reich tedesco si impadronisce dell’Alsazia e della Lorena. Ai cittadini francesi viene offerta l’opzione di rimanere (acquisendo la cittadinanza tedesca) o andarsene e restare francesi. La famiglia Bloch decide di tornare in Francia. Sono francesi al 100% i Bloch, sono ebrei , ma l’origine ebraica non viene assolutamente avvertita come elemento di rilievo all’interno dell’identità famigliare.
A ventotto anni Marc Bloch è professore di liceo, ha già fatto il servizio militare ed è sergente della riserva, ma gli eventi storici iniziano ad entrare nella vita di questo straordinario personaggio: siamo nel 1914 e scoppia il primo conflitto mondiale. Marc viene mobilitato come sergente di fanteria e combatte tutta la guerra fino al 1918, raggiungendo il grado di capitano. All’interno della gerarchia militare iniziare la carriera da semplice sergente ed essere promosso a rango di capitano, significa aver operato una brillante carriera e essere propensi per il mestiere di soldato, tanto che nei quattro anni di trincea viene citato per ben quattro volte per atti di valore all’ordine del giorno. Aver combattuto al fronte, significa avere vissuto le atrocità della guerra e Bloch nei suoi diari ricorderà con lucidità anche i dettagli più crudi: “quando la pallottola colpisce il cranio da una determinata angolatura, lo fa esplodere. In questo modo morì il mio amico Luis: metà del volto pendeva come un’imposta scardinata e si vedeva l’interno della scatola cranica, quasi vuota. Con un asciugamano ricoprii quell’orribile ferita: volevo nasconderla ai miei soldati. (…) I contadini e gli operai, considerati dei «duri» spesso sono particolarmente impressionabili. Da parte mia sopporto senza troppe difficoltà gli spettacoli cruenti”.

Nelle immagini da sinistra verso destra: il sergente Marc Bloch nel 1914 in posa per una foto; Il capitano Bloch (il secondo da sinistra) in una foto con altri ufficiali d’armata; soldati francesi posano in una foto nel 1918 a conflitto terminato.

Nel 1918 concluso il conflitto, viene smobilitato e riporta dalla guerra una salute compromessa: ferito leggermente due volte, in cinque mesi di trincea ha contratto il tifo che gli lascerà un’artrite alle mani – portata dietro tutta la vita – che gli renderanno difficoltoso il suo mestiere di storico e scrittore. Il bagaglio di esperienze portate dalla guerra gli saranno utilissime per il suo mestiere. Ha constatato quanto è labile la memoria umana: lo storico avrà difficoltà a ricordare esattamente tutti i suoi ricordi del fronte, presenti come tanti fotogrammi inseriti in punti diversi della memoria, che gli impediscono di ricostruire un filo mnemonico completo. Dalle sue riflessioni nascerà un problema comune a molti storici nella ricostruzione degli eventi, poiché lo studioso fonda i suoi documenti su i ricordi degli individui e su come sono stati scritti. Marc Bloch metterà in dubbio proprio la “testimonianza storica” delle fonti.
Insieme all’amico e collega Lucien Febvre fonderà la rivista Les Annales (“Annales d’histoire économique et sociale”), probabilmente, il più importante raggruppamento di storici francesi del XX secolo, che divenne celebre per aver introdotto rilevanti innovazioni metodologiche nella storiografia (nouvelle histoire).
I due amici spesso avevano accese discussioni: “gli storici sono giudici istruttori” – asseriva dire Bloch -, dove lo storico è colui che conduce un’inchiesta, mentre Lucien Febvre ribatteva come a livello accademico, gli storici non dovevano “giudicare”, ma descrivere. Asserì in una sua famosa frase: “Il bravo storico, assomiglia all’orco delle leggende: quando sente odore di carne umana, sa che lì c’è la sua preda”.
Altra indagine importante è quella sulle false notizie in tempo di guerra: il francese inizia una ricerca sulla metodologia usata dalle truppe riguardo il giudizio valutativo degli accadimenti bellici, poiché quando un evento quadra con i pregiudizi di una persona, questa inizia a credere alle contingenze, le quali corrispondono alla sua aspettativa. Questo agire è di grande rilievo nella storia accademica di tale mestiere, poiché significava porsi delle domanda, che all’epoca non erano mai state concepite: non si discute sui “fatti”, ma sulla psicologia collettiva. Come ragiona l’individuo? E’ un problema storico. Uno dei grandi saggi di Bloch, scritti dopo il primo conflitto mondiale, si intitola “I Re Taumaturghi” dove si analizza la credenza collettiva: in passato le persone credevano che i Re di Francia potessero curare una certa malattia (la scrofola) toccando i malati. Regolarmente – fino alla fine del settecento – i Re di Francia inscenavano queste cerimonie in cui venivano i malati, i quali venivano “toccati” dal Re, e vi era sempre qualcuno che “guariva”. Prima di Marc Bloch gli storici asserivano che tali questioni fossero meramente popolari e di carattere superstizioso: di poco interesse in ambito accademico.
Altra questione di rilievo per lo storico di Lione è il contatto con il popolo francese: in guerra Bloch – da intellettuale parigino – incontra contadini e minatori, già scossi per via dell’invasione tedesca della Francia, fermata poi con la battaglia della Marna. L’effetto dei profughi francesi che si ritirano dai territori occupati dai tedeschi gli farà avere un senso di colpa molto forte: “questi contadini di Francia, in fuga da un nemico da cui non potevamo proteggerli”.
Bloch, il militare che sta perdendo la grande guerra, si sente responsabile verso una popolazione civile che non può difendere e da quel momento la sua attenzione è rivolta verso i ceti meno abbienti della società. Era rispettoso verso le persone meno fortunate di lui, che non avevano studiato, ma che sapevano ragionare e vivevano il mondo con la loro intelligenza. Osservare, dunque, il mondo con altri occhi: ragionare con il punto di vista degli altri, per giustificare usi e costumi diversi, per capire le differenze fra agricolture, architetture e prodotti enogastronomici. La ricerca di Bloch scende nel dettaglio: dagli attrezzi utilizzati nei campi – con differente posizione geografica – al modo di lavorare diverso che spaziava da regione a regione. Si poneva domande semplici come conoscere la fisionomia di un aratro medievale e venire a conoscenza del periodo in cui il manufatto si evolve e di conseguenza cambia. Sono domande che oggi possono sembrare banali, ma nel dato periodo storico non lo erano affatto. Il primo ventennio del novecento è un periodo epocale per la storiografia e Marc Bloch è un protagonista di questo rinnovamento accademico.
Conclusosi il conflitto, in Europa si apre un mondo nuovo: durante la pace gli viene assegnata la cattedra all’università di Strasburgo – nell’Alsazia recuperata ai tedeschi – e rimarrà nella cittadina per quasi tutta la sua vita. A Strasburgo nel 1929, Marc Bloch e Lucien Febvre pubblicano il primo numero della già citata rivista de “Les Annales” all’interno della quale si sforzano – insieme ad altri storici di comprovato valore – di creare l’innovazione in campo accademico storiografico. La storia economica entra al centro della questione accademica: prezzi, monete, lavoro. Lo storico abbraccia un campo di studio più grande, grazie a Bloch: deve conoscere l’economia, deve comprendere la differenza fra i gruppi sociali, deve divenire antropologo; insomma si vuole porre un freno alla separazione delle discipline. Altro scopo che la rivista si poneva era l’abbattimento delle barriere ideologiche e dei pregiudizi storici, come ad esempio il medioevo da sempre considerato “un evo oscuro”. Allo studio dello storico interessa tutto.

Nelle immagini da sinistra a destra: Marc Bloch, Lucien Febvre e un numero della rivista “Les Annales”.

Sempre alla fine della guerra Bloch si sposa – siamo nel 1919 – con una ragazza ricchissima e molto bella – anche lei ebrea – Simone Vidal e sarà un matrimonio felice dal quale saranno concepiti sei figli. La famiglia dello storico francese appartiene all’alta borghesia che all’epoca significava possedere tre persone di servizio in casa – la cuoca, la domestica, la bambinaia -, possedere un automobile e una casa di campagna (tra la città e la campagna vi era molto distacco), avere il telefono (lo possedevano negli anni venti pochissimi fortunati). La vita di campagna oggi non esiste più, così come la poteva concepire uno storico dell’epoca, il quale lavorava – chiuso nel suo studio – tutta la giornata per apparire solo a colazione e a pranzo, essendo aiutato soltanto dalla moglie nella stesura a macchina dei suoi scritti. La figura della moglie all’epoca, diveniva per lo storico fondamentale poiché questa rileggeva e scriveva in bella tutto l’immenso lavoro prodotto dal marito: oggi non è più così, tranne rarissimi casi.
Arrivano così gli anni trenta e nessun europeo in questo periodo storico può vivere – specialmente un intellettuale che conosce gli eventi geopolitici – una vita serena, senza apprendere i grandi mutamenti europei con l’affermazione del partito nazionalsocialista in Germania.
Solo alla metà degli anni trenta Marc Bloch comprende come il suo cognome – fuori dalla Francia – può creargli alcuni problemi, data la sua origine ebraica. Nel frattempo vorrebbe trasferirsi al “Collège de France” la massima università parigina per l’epoca. Il Collegio è l’espressione della libertà dello studioso e del sapere: si occupa di ricerche in campo storiografico e filologico, ma anche nelle discipline della fisica, della matematica, della chimica, delle scienze della terra, della psicologia cognitiva e della filosofia, spesso con intenti interdisciplinari. I suoi insegnamenti non sono diretti solo ad altri professori e ricercatori, ma rivolti a chiunque desideri seguire i suoi corsi. Nel vocabolario del Collège de France si afferma che i professori non hanno studenti ma solo uditori. Ma una volta mosse le prime telefonate e dialogato con alcune persone in grado di far scegliere lo storico nella prossima investitura universitaria (la scelta avviene per cooptazione) gli viene spesso riferito che la causa di eventuali ritardi sulla nomina è dovuta al suo cognome: ci sono troppi ebrei nel collegio. In una sua corrispondenza con Febvre affermerà: “Si, è proprio vero. Nel nostro paese sta tornando l’antisemitismo”. Lo storico si interroga anche sul suo essere ebreo, elemento etnico fino all’ora non considerato affatto, ma con il quale fare i conti; continua ancora con Febvre: “Sono ebreo, se non per la religione che non pratico – come non ne pratico nessuna -, almeno per nascita. Non ne traggo né orgoglio, né vergogna perché sono, spero, abbastanza buono storico da sapere che le predisposizioni razziali sono un mito. Non rivendico mai la mia origine tranne quando mi trovo davanti ad un antisemita”.
In Francia si ha il timore di una installazione totalitaria, come già era avvenuta nella stragrande maggioranza dei paesi europei. “Di questo passo ci faranno finire come Matteotti” asserì una volta al suo amico e collega francese di stanza a Parigi. Nel 1933 la dittatura – oltre che in Italia, Spagna, Portogallo e altri paesi europei – arriva anche in Germania: Strasburgo è sul confine tedesco e si possono osservare le sfilate naziste al di la del fiume. La sensazione da parte di Bloch è di vivere in un epoca che sta scivolando verso l’abisso dell’ennesima guerra civile europea, accorgersi che sta arrivando qualcosa di spaventoso e non si capisce bene come comportarsi nel merito.
In Francia il clima politico è pesantissimo: nel 1934 ci sono manifestazioni di piazza della destra che rovesciano il governo e molti hanno paura di essere ad un passo dall’italiana “Marcia su Roma”. Dirà sempre Bloch nelle sue lettere: “Nei licei si compra una pistola per dieci franchi”.
Ma che idee politiche ha Marc Bloch? Suo figlio Etienne sostiene di non conoscere le idee politiche del padre, ma ipotizza che sia stato un uomo di sinistra, ma era altrettanto un uomo d’ordine. In linea più generale il personaggio di Bloch nella società è inquadrabile nella borghesia, la quale non fa politica perché è ricca, il loro ceto sociale è tutto di destra, ma poco assoggettabile allo strumento della propaganda, perché colto e indipendente. Sicuramente non sono comunisti, perché hanno orrore del dogmatismo, ma hanno il senso dei movimenti popolari, delle ingiustizie sociali. La risultante di tutta questa descrizione è – agli occhi del suo mondo – l’etichettatura a “rosso”: in quell’epoca si doveva “stare” da una parte o dall’altra: se non si apparteneva all’esercito e se non si facevano proprie idee nazionaliste, allora si diventava automaticamente un “rosso”.
Lettera del dicembre 1935: “Non essendo profeta, non so dove sarò nell’agosto del 1938. Voglio dire in che mondo e se in questo, sotto che cielo o magari in che rifugio anti-aereo o in un campo di concentramento. La vita con i tempi che corrono non abbonda in certezze”.
Altra lettera del 1937, da Londra: “Vorrei vedere impiccare Mussolini, Hitler e Laval (quest’ultimo è il filo-fascista francese, vissuto durante la terza repubblica della Francia). Non succederà e in fondo sarebbe una magra consolazione: uno nel suo angolino, non vede modo di far niente. Mi scusi per questi discorsi inutili, meglio lavorare, penso”. In questo momento fra le due guerre arriva l’interrogativo dello storico, addentro al corso degli eventi, con il suo sentirsi inutile, ma soprattutto la non consapevolezza di come poter operare.
Si arriva, inesorabilmente, al secondo conflitto (1939) e il capitano Marc Bloch viene richiamato per fare la guerra. Dopo la capitolazione dello stato retto dai militari in Polonia, dal settembre 1939 al maggio del 1940 lo schieramento tedesco e quello anglo-francese si osservano senza sparare un colpo.
Lo storico di Lione, potrebbe farsi esentare poiché ha cinquanta anni e possiede sei figli, ma non vuole chiedere l’esonero e va in guerra – non più in trincea – nello stato maggiore dell’armata. Anche qui, non perderà il suo consueto umorismo: “Devo essere il capitano più vecchio dell’esercito francese” dichiarerà agli amici. Sarà sistemato in ufficio, inizialmente come ufficiale di collegamento con il corpo di spedizione inglese, e successivamente gestirà tutti i rifornimenti di benzina di una armata: un compito di grande responsabilità e competenza.
Come già dimostratosi nel primo conflitto, all’interno dell’elemento bellico, il capitano Bloch si trova nel suo ambiente e tutto quello che opera, lo compie con magistrale disinvoltura. Passano i primi mesi e arriviamo al 1940 dove l’umore delle truppe francesi – dopo mesi di attesa – si guasta tra pensieri di troppo e mancanza di certezze: “Qui si vive nella noia più totale, nell’attesa di qualche cosa. Magari spaventoso, ma che renda un po’ meno assurda la nostra esistenza qui”. Il 10 maggio 1940 i tedeschi attaccano e nel giro di pochi giorni sbaragliano l’esercito francese: sfondano il fronte, invadono la Francia e gran parte dell’esercito – compresa l’armata, dove Bloch è stanziato – si trova circondato dalla wehrmacht. I francesi compiono una ritirata frenetica, per arrivare ad un porto qualunque e imbarcarsi per mettersi in salvo dai tedeschi che incalzano. Arriveranno a Dunkerque, dove la flotta inglese effettivamente riesce a salvare e a portare in Inghilterra gran parte delle forze franco-britanniche circondate da quella che gli storici definirono “La guerra lampo”.

Due fotogrammi: Il primo rappresenta un momento cruciale del film “Suite francese” (Suite française) del 2014 diretto da Saul Dibb, basato sulla seconda parte – intitolata Dolce – dell’omonimo romanzo di Irène Némirovsky, pubblicato postumo nel 2004, a più di sessant’anni dalla sua stesura. Viene rappresentato l’evento in cui la wehrmacht reimposta il fuso orario francese, modificandolo con quello tedesco: un simbolo dell’occupazione tedesca del 1940. Nella seconda immagine la motorizzata tedesca sfila, passando sotto l’arco di Trionfo a Parigi.

La scrittrice ucraina, naturalizzata francese Irène Némirovsky, scriverà nel suo romanzo capolavoro “Suite francese” l’evento della disfatta, ponendo la questione sotto un profilo “umano” dell’invasore: “Non erano ancora i tedeschi ad arrivare, ma UN tedesco: il primo. Dietro le porte sprangate, dagli spiragli delle imposte socchiuse o dall’abbaino di un solaio, tutto il paese lo guardava avanzare. Il soldato fermò la motocicletta sulla piazza deserta; portava i guanti, un’uniforme verde e un elmetto con visiera sotto il quale, quando alzò la testa, apparve un volto roseo, magro, quasi infantile. «Come è giovane!» sussurrarono le donne. Inconsciamente si aspettavano una qualche visione apocalittica, un qualche mostro orrendo. Il tedesco scrutava tutto intento alla ricerca di qualcuno. Allora il tabaccaio che aveva fatto la campagna del ’14 e sul risvolto della vecchia giacca grigia portava una croce di guerra e la medaglia militare, si fece incontro al nemico. Per un attimo i due uomini restarono immobili, l’uno di fronte all’altro, senza parlare. Poi il tedesco mostro la sigaretta che teneva in mano e chiese del fuoco in cattivo francese. Il tabaccaio rispose in cattivo tedesco giacché aveva preso parte alla occupazione di Mainz nel ’18. Il silenzio era tale (tutto il villaggio tratteneva il respiro) che si coglieva ogni loro parola. Il tedesco domandò la strada. Il francese rispose, poi fattosi coraggio: «E’ stato firmato l’armistizio?». Il tedesco allargò le braccia. «Non lo sappiamo ancora. Speriamo» disse. E la risonanza umana di quella parola, quel gesto, tutto l’insieme provava in modo evidente che non ci si trovava di fronte ad un mostro assetato di sangue, ma a un soldato come gli altri, e il ghiaccio fra il paese e il nemico, fra il contadino e l’invasore si ruppe immediatamente“.
Marc Bloch è lì, nella ritirata, ed è più che mai è nel suo elemento. Conosceva tutti i luoghi di rifornimento per la benzina e nella ritirata li fa incendiare tutti: “Da Mons a Lille ho fatto bruciare a tutti gli incroci della ritirata: migliaia di ettolitri di benzina. Ho appiccato più incendi di quelli che può avere appiccato Attila”, scrisse nelle sue memorie.
Un ufficiale di mestiere durante la ritirata gli affermerà: “Ci sono dei militari di mestiere che non saranno mai dei guerrieri e ci sono dei civili che per natura sono dei guerrieri. Prima del dieci maggio non l’avrei mai immaginato, ma lei è un guerriero”. Lo storico rimarrà talmente colpito da tale affermazione che la inserirà all’interno dei suoi diari. La guerra a Bloch non piace, ma l’avventura si: riuscirà ad imbarcarsi a Dunkerque, ma una volta in Inghilterra i francesi – credendo fortemente che la guerra non fosse ancora persa – per ordine degli alti comandi vengono, la mattina successiva, rispediti nella Normandia con l’idea di rimettere in piedi l’esercito e continuare la guerra. Nel frattempo l’esercito tedesco avanza inesorabile e dai diari di Bloch si evince come l’alto comando francese non avesse minimamente compreso l’innovazione della macchina bellica tedesca: “Ogni giorno ci spostavamo indietro di venti chilometri: non abbiamo mica capito che dovevamo spostarci di duecento chilometri! Non avevamo capito niente”.
Il professore si reca a Rennes e dopo qualche settimana, uscendo dal suo ufficio in divisa da ufficiale, osserva l’ingresso della wehrmacht nella città: i tedeschi hanno occupato inesorabilmente tutta la Francia.
Bloch, riesce a nascondersi e spogliatosi degli abiti militari, si reca nel più vicino hotel prenotando una stanza: i tedeschi non lo scoprono. Dopo aver lasciato Rennes nel mese di luglio incontra – dopo molto tempo – la sua famiglia alla quale affermerà stizzito: “dopo, ci saranno molti conti da regolare”. Emerge in lui – nel mezzo dello sfracelo della Francia – una sorta di durezza e di spietatezza verso gli alti comandi, ma soprattutto verso il sistema politico francese prima del conflitto, incapace di autoregolarsi spaccando ideologicamente il paese. Con la famiglia si reca nella casa di campagna, tagliata fuori dalla nazione, invasa da una forza straniera e vive alla giornata.
Durante questo periodo terribile, Marc Bloch torna a scrivere e lo fa con la produzione di un altro piccolo capolavoro della storiografia: “La strana disfatta”, una lucida e perfetta disamina della guerra, con l’analisi delle motivazioni politiche e sociali di questa grande sconfitta. Scriverà: “noi eravamo vecchi e i tedeschi erano giovani. Noi eravamo comandati da vegliardi. Noi abbiamo combattuto una guerra di altri tempi: una volta si facevano le guerre coloniali e noi con il fucile sconfiggevamo i neri armati di zagaglie. Qui è stata la stessa cosa, solo che noi eravamo quelli con la zagaglia e i tedeschi quelli con il fucile. (…) I tedeschi correvano in macchina, con i motori e noi non abbiamo capito niente di che cosa era questa guerra”. Successivamente nei suoi scritti analizzerà anche la nazione francese prima della disfatta, non ritenendo possibile che la Francia si sia spaccata prima del conflitto. Vi erano manifestazioni operaie in piazza: rumorose, piene di rancore, pugni alzati e ostili, ma Bloch vi intravedeva anche tanta speranza nei manifestanti. La classe dirigente francese, invece, memore dell’esperienza russa, prese paura: i politici, i militari, il clero, gli industriali. La classe dirigente è spaventata e nell’alternativa preferirebbe un uomo forte come Hitler alla controparte “rossa” e su questo punto viene meno – per Bloch – l’unità del paese che ha smarrito il vero pericolo: il nemico tedesco.
La riflessione porterà un’interrogazione anche sul periodo intercorso fra le due guerre, dove il paese francese non ha prodotto molto – a differenza di quello tedesco – se non lo studio accademico. Ripartisce la colpa della disfatta anche alla sua categoria: quella degli storici, i quali convinti che gli eventi si plasmano intorno al movimento delle masse, sono rimasti immobili e passivi davanti agli eventi.
Dopo l’invasione tedesca, la Francia viene suddivisa il 10 luglio del 1940 in tre zone di influenza: una nazista, una francese ed una italiana. Bloch si rifugia nello “Stato francese” che successivamente verrà denominato “Governo di Vichy” con l’eccezione della zona di Mentone, occupata dall’Italia, e della costa atlantica, governata dalle autorità tedesche. Mantenne la sua neutralità militare – ma non politica, vista la dipendenza dai nazisti – nel corso di tutto il conflitto che ne seguì.
In una Francia dipendente, umiliata e sconfitta, Bloch inizialmente continua ad insegnare, ma viene spedito in una piccola università di provincia senza poter tornare a Parigi, occupata dai tedeschi e dalle famigerate Schutz-staffeln.
La sua casa a Parigi è confiscata dai vincitori ed affidata agli ufficiali di stanza nella capitale, così come la sua biblioteca che sparisce per sempre in Germania.
Marc Bloch insegna in un clima di antisemitismo crescente e successivamente anche la Francia di Vichy viene occupata dai tedeschi. Lo storico alsaziano è costretto a nascondersi per via delle sue origine ebraiche e nel 1942 la famiglia si rifugia nella casa di campagna, mentre i due figli maggiori li fa espatriare in Spagna con la speranza di poter dar loro la possibilità di raggiungere de Gaulle comandante della “Francia libera” in Africa. Sistemata la famiglia si reca a Lione e contatta la resistenza francese clandestina che lo accoglie tra le sue fila. Il movimento è quello promosso da Georges Altman della frangia dei “Franchi-tiratori”. Dopo essersi distinto in varie operazioni rischiose, come portare lettere e giornali clandestini, anche la resistenza si rende conto della sua bravura e Bloch torna per la terza volta in “guerra” contro lo storico nemico.
Inizia così a fare carriera all’interno del suo movimento, arrivando ad esserne il rappresentante del direttivo della resistenza della Francia meridionale. In maniera provvisoria diventerà anche capo di tutto il direttivo della resistenza non comunista (la resistenza comunista opera in maniera individuale) in tutta la Francia meridionale: possiede degli uffici clandestini, delle identità false e una moltitudine di uomini sotto il suo comando. La raccolta informazioni e l’invio di notizie false ai tedeschi è all’ordine del giorno nella cittadina di Lione, dove – nel frattempo – a comandare la Gestapo (Polizia segreta di stato) arriva l’ufficiale Nikolaus Barbie detto Klaus, il quale diverrà tristemente noto come il “boia di Lione” e verrà processato solo negli anni ottanta dopo aver collaborato per anni con gli Stati Uniti nel dopoguerra.

Nella prima immagine, cartina politica della Francia nel 1941. Nelle due immagini successive Nikolaus Barbie detto Klaus (Bad Godesberg, 25 ottobre 1913 – Lione, 25 settembre 1991) è stato un ufficiale tedesco. Fu il comandante della Gestapo nella suddetta città francese durante l’occupazione nazista della Francia. Scampato al processo di Norimberga, dopo la seconda guerra mondiale ha partecipato ad attività di intelligence, lavorando per i servizi segreti americani e nascondendosi, dal 1955, in Bolivia, dove operò attivamente per i servizi boliviani sotto lo pseudonimo di Klaus Altmann, venendo infine arrestato e processato negli anni ottanta.

Mentre la Gestapo di Klaus Barbie cerca di annientare la resistenza, Bloch continua il suo operato clandestino ed è un organizzatore nato: preciso, intelligente, astuto. Inizia una caccia alla volpe per l’ufficiale tedesco che non ha precedenti nella Francia occupata. Bloch contatta stabilmente tutte le organizzazioni clandestine, coadiuvandosi con loro e una volta al mese si reca addirittura a Parigi per partecipare alle riunioni. Sempre nella capitale in totale segretezza, torna a trovare l’amico Febvre con il quale si promette che dopo la guerra, dovranno essere tra coloro che rifonderanno la scuola universitaria del paese. Prepareranno anche un futuro assetto istituzionale francese, poiché i vertici della resistenza operano anche in questa direzione e pianificano anche i movimenti da attuare quando gli anglo-americani sbarcheranno sulle coste francesi: Bloch è un patriota, tutto deve essere pronto per la rivincita.
Con il passare dei mesi il clima a Lione si fa sempre più pesante, perché Klaus Barbie è bravo a fare il suo mestiere e Bloch si rende conto pian piano che le sue operazioni sono sempre più rischiose e che ogni giorno le probabilità di un arresto aumentano. A Febvre confida: “Ogni tanto ho delle premonizioni di una morte orribile”. L’ultima lettera alla moglie la scrive il mattino dell’otto marzo del 1944: “Lo so che sei sola e ci sono tante decisioni da prendere. Scusami se sono lontano”, poi uscito di casa, una macchina della Gestapo si ferma davanti al suo portone: dopo averlo rincorso lo arrestano su un ponte di Lione. Negli stessi giorni di quel fatidico mese di marzo, verrà arrestata l’intera direzione regionale della resistenza francese meridionale: qualcuno, sotto tortura, ha confessato. L’importanza del nostro storico la si denota dalla stampa di Vichy, la quale dopo l’arresto annuncia: “la resistenza a Lione è distrutta. Il capo dei terroristi era un ebreo”. I tedeschi sono ancora più espliciti, tramite il Völkischer Beobachter (“Osservatore popolare”) il giornale del partito nazista: “un ebreo dirigeva i terroristi in Francia”. L’ambasciatore tedesco a Vichy scrive al ministero degli esteri a Berlino asserendo: “il capo della direzione del movimento di resistenza a Lione era un ebreo francese, chiamato Bloch”.
Marc Bloch viene condotto al quartier generale della Gestapo, a casa di Klaus Barbie e ci pervengono informazioni da un leader della resistenza – rimasto libero – che ha raccontato il susseguirsi degli eventi a Lione: “il 14 marzo, lo storico Marc Bloch è stato arrestato a Lione. (…) 20 marzo Marc Bloch è stato visto in un corridoio: il viso tumefatto e insanguinato. (…) A Lione Marc Bloch è stato torturato: immersioni nell’acqua gelida, bruciature della pianta dei piedi, tre costole rotte. E’ appena uscito da una broncopolmonite (la Gestapo, con l’immersione nell’acqua gelida, spesso comprometteva la salute degli interlocutori, i quali venivano curati in ospedale e successivamente interrogati per avere altre informazioni) ed è chiuso nella prigione di Montluc a Lione, insieme a centinaia di altri uomini catturati”.
Il sei giugno del 1944 gli anglo-americani sbarcano sulle coste della Normandia, dando inizio all’operazione “Overlord” e questa sarà l’ultima notizia che il nostro storico riesce a conoscere sul conflitto: sbarcati gli americani, i tedeschi si preparano ad evacuare la Francia senza lasciare dietro prigionieri vivi. Le Waffen-SS cominciano a fucilare tutti i prigionieri di Montluc: in totale tra giugno e settembre vengono uccisi 713 prigionieri. Marc Bloch è fra i primi, il 16 giugno, viene scortato ammanettato su un camion e condotto fuori Lione dove– insieme ad altri trenta – viene abbattuto in piena notte da raffiche di mitra. In queste fucilazioni collettive, in piena notte, succedeva abbastanza spesso che qualcuno si salvava: dei trenta portati fuori con Bloch, due vengono solo feriti ed in qualche modo riescono a salvarsi ed hanno raccontato – finita la guerra – cosa è successo veramente quella notte. Dirà uno dei due superstititi: “ho sentito molti compagni cadere gridando «addio mamma», oppure «addio moglie», oppure «viva la Francia». (…) Hanno portato fuori dalla camionetta i primi, abbiamo sentito le raffiche di mitra e Bloch mi ha detto «quel che c’è di buono è che non si ha il tempo di soffrire»”. Questa frase si tramuterà in una leggenda ben diversa – che si diffonde già nel 1945 – la quale narra che prima di morire Bloch aveva accanto a se un ragazzo che tremava di paura (non c’era nessun sedicenne tra i condannati) e il professor gli afferma poco prima dell’esecuzione: “non aver paura piccolo, non fa male”. Per riprendere il suo saggio sulle “false notizie” oserei affermare come il professore alsaziano, ancora una volta, si sarebbe divertito a smontare “i falsi miti”. Ripropongo – per concludere – le parole del suo testamento, pochi mesi prima del suo omicidio, quando chiese funerali civili: “non ho chiesto che sulla mia tomba fossero recitate le preghiere ebraiche, anche se le loro cadenze hanno accompagnato all’ultimo riposo tanti dei miei antenati e anche mio padre. Non l’ho chiesto, ma mi sarebbe ancora più odioso che qualcuno potesse vedere in questo mio sforzo di sincerità un rinnegamento. Affermo dunque, davanti alla morte, che sono nato ebreo e che non ho mai pensato di negarlo. Non voglio preghiere, perché anche in questo caso non voglio mentire: non ci credo. Vorrei che sulla mia pietra tombale fossero incise queste semplici parole: «dilexit veritatem» (amò la verità)”.

 

Per approfondimenti:
_Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico – Edizioni Einaudi, Torino, 1998;
_Marc Bloch, La guerra e le false notizie – Edizioni Donzelli, 1994;
_Marc Bloch, La strana disfatta – Edizioni Einaudi, 1995
_Marc Bloch, I re Taumaturghi – Edizioni Einaudi, 2005

 

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