Il modello tecnologico dell’esercito, mal si rispecchiava con l’apparato gestionale di questo: si trattava di un esercito – come molti altri corpi militari dell’epoca – che era stato costruito da un punto di vista tattico per operare con manovre di tipo settecentesco/ottocentesco – secondo la tattica napoleonica – con le grandi manovre per un attacco frontale di sfondamento, che durante la guerra mondiale non sarà più possibile (per lo sviluppo tecnologico dell’apparato bellico, in particolare quello della mitragliatrice, la quale rendeva impari il movimento di offesa con quello di difesa) come già avevano appurato gli Stati Uniti nei lunghi anni della guerra civile della seconda metà dell’ottocento.
Dopo pesanti sconfitte, nel 1915 l’Imperatore propone una pace negoziata, ma nessuno dei suoi generali, né i suoi alleati tedeschi ne vogliono sapere: “le cose ci stanno andando male, forse anche peggio di come sospettiamo: un popolo affamato non può sopportare molto altro”.
La sua salute è sempre più cagionevole e il venti novembre del 1916 si ammala di polmonite, ma nonostante la febbre, continua a lavorare fino alla sua ultima ora. Si spegne alle 21:05 del giorno successivo all’età di ottantasei anni. Per nove giorni, come da tradizione, i sudditi dell’Impero accorrono ad omaggiare la salma del loro vecchio Imperatore. Il trenta novembre, giorno delle esequie, per l’ultima volta si ripete un rituale vecchio di secoli: le porte della chiesa di Sant’Agostino – sepoltura degli Imperatori d’Austria – sono chiuse; il Gran Ciambellano dell’Impero – conte di Montenuovo – per due volte picchiava al portale ed ogni volta un frate cappuccino chiedeva “chi è?”. “Sono Francesco Giuseppe Imperatore d’Austria” rispondeva il Ciambellano, “non conosco Imperatori” asseriva il frate. Alla terza volta il conte di Montenuovo cambiava linguaggio: “sono tuo fratello Francesco Giuseppe, un miserabile peccatore” e le porte si aprivano. Fu l’ultimo funerale di un Imperatore d’Austria.
La scomparsa di Francesco Giuseppe, rappresenta solo simbolicamente la fine dell’Impero asburgico. Il suo lento declino va inscritto già nel “compromesso” del 1867, quando per placare la “questione ungherese” l’Imperatore concesse alla nobiltà magiara il regno in condizioni di parità con l’Austria. Questa operazione portò – come per paradosso – un aumento (e non una diminuzione) del nazionalismo, poiché a livello politico tutte le undici realtà etniche volevano pari diritti e pari rappresentanza in parlamento: diritti che non furono mai concessi e che portarono l’Austria-Ungheria a lotte intestine, molto prima del primo conflitto mondiale.
Il nazionalismo ambiva – come ci hanno tristemente descritto i regimi totalitari – alla perfezione umana. Lo stato Asburgico affidandosi alla fede cattolica – di contro – ambiva al perdono umano, dato dall’imperfezione naturale dell’uomo.
Un impero che perdonava il suo suddito – in quanto imperfetto – era una potenza tollerante, ma le regole erano rigide, proprio a protezione di quei valori cattolici che rappresentavano le fondamenta dell’Austria-Ungheria.
Questo spirito religioso, insieme ai valori, inizia a venire meno negli ultimi dieci anni dell’Impero. Lo scrittore che ne immortala l’essenza è Joseph Roth ne “La Cripta dei Cappuccini”: “Io ero miscredente, come i miei amici, come tutti i miei amici. Non andavo mai alla messa. (…) Per la verità, oggi sono credente, non so più perché l’odiassi. Era di ‘di moda’, per così dire. Mi sarei vergognato se avessi dovuto dire ai miei amici che ero andato in chiesa. Non c’era in loro una vera ostilità verso la religione, bensì una specie di orgoglio nel non riconoscere la tradizione nella quale erano cresciuti. Non è che volessero rinunciare alla sostanza della loro tradizione; ma essi, anzi noi – io ero dei loro – ci ribellavamo alle forme della tradizione, perché non sapevamo che la vera forma è identica alla sostanza e che era puerile scindere l’una dall’altra. Era puerile, come ho detto: e infatti noi allora eravamo puerili. La morte incrociava già le sue mani ossute sopra i calici dai quali noi bevevamo, lieti e puerili. Noi non la sentivamo la morte. Non la sentivamo perché non sentivamo Dio. Fra di noi il conte Chojnicki era l’unico che si attenesse ancora alle formalità religiose, ma anche lui non già per fede, bensì per il sentimento che la nobiltà lo obbligasse a seguire i precetti della religione. Noialtri che li, trascuravamo, ci considerava semianarchici. «La Chiesa romana» usava dire «in questo mondo marcio è l’unica ormai in grado di dare, di conservare una forma. In quanto racchiude nella dogmatica, come in un palazzo di ghiaccio, l’elemento tradizionale delle cosiddette ‘antiche usanze’, procura e concede ai suoi figli tutt’intorno, fuori da questo palazzo di ghiaccio che ha un ampio e spazio vestibolo, la libertà di coltivare l’indolenza, di perdonare l’illecito, e anzi di commetterlo. Mentre statuisce dei peccati, già li perdona. Non ammette assolutamente uomini perfetti: questo è il suo contenuto eminentemente umano. I suoi figli perfetti essa li santifica. Con questo ammette implicitamente l’imperfezione degli uomini. Anzi, ammette l’inclinazione al peccato nella misura in cui non considera più come umani quegli esseri che al peccato non sono soggetti: questi diventano beati o santi. Con ciò la Chiesa romana dà testimonianza della sua fondamentale propensione al perdono, alla remissione. Non esiste più nobile propensione del perdono. Considerate che non ne esiste di più volgare della vendetta. Non c’è nobiltà senza generosità, come non c’è brama di vendetta senza volgarità». Era il più vecchio e il più saggio fra noi, il conte Chojnicki; ma noi eravamo troppo giovani e troppo sciocchi per tributare alla sua superiorità quell’omaggio che essa certamente meritava. Lo ascoltavamo più per compiacenza che per convinzione e, per giunta, c’immaginavamo anche di fargli una gentilezza a starlo ad ascoltare. Per noi, cosidetti giovani, era un uomo maturo. Solo più tardi in guerra, ci fu dato di vedere quanto fosse veramente più giovane di noi. Ma solo troppo tardi, troppo tardi, ci accorgemmo che in realtà noi non eravamo più giovani di lui, bensì semplicemente senza età, per così dire ‘innaturalmente’ senza età. Mentre lui era naturale, degno dei suoi anni, autentico e benedetto da Dio“.
Concluso il conflitto 1914-1918, l’Impero Asburgico esce sconfitto e la sentenza dei vincitori è scioccante per gli austriaci: “Delenda Austriae”. Lo avevano annunciato le forze socialiste, lo avevano proclamato i settori liberali, lo avevano decretato le logge massoniche, come dimostra lo storico François Fetjö in “Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico”.
Il torto dell’Austria? Essere una “monarchia papista”, come affermava con sdegno il primo ministro francese Georges Clemenceau. Cioè un impero, che all’ideale di Fede cattolica univa inscindibilmente un ideale di Civiltà cristiana. Era proprio questo, forse, che dava tanto fastidio alle forze rivoluzionarie. Nonostante deformazioni e manchevolezze, l’Austria esalava ancora il profumo del Sacro Romano Impero – del quale era legittima erede – soprattutto attraverso la dinastia degli Asburgo. Questo, per la Rivoluzione, non era tollerabile.
In extremis, l’imperatore Carlo I, palesemente esente da colpa politica poiché era asceso al trono quasi sul finire del conflitto dopo la morte di Francesco Giuseppe (1916), si appellò al presidente statunitense Woodrow Wilson, la stella ascendente nel panorama mondiale. Da oltreoceano arrivò la stessa sentenza: l’impero andava abolito e l’Austria smembrata in nome della libertà e dell’uguaglianza, elementi che si traducevano nella “autodeterminazione dei popoli” – ideologia che poi non sarà applicata con serietà e omogeneità, dagli stessi vincitori del conflitto soprattutto in ambito coloniale. L’Impero era tramontato.
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