Sulla figura del dandy si è scritto e parlato a non finire, con una vasta letteratura in materia. Per iniziare dobbiamo porre l’attenzione sul dandy contemporaneo, una figura che ha ormai attraversato due secoli di storia del mondo occidentale.
Nato in Inghilterra all’inizio del XIX secolo, il dandy è generalmente definito come una persona di sesso maschile dall’abbigliamento ricercato ma non volgare, fedele ai principi del classico e apparentemente nemico della moda, dal carattere leggero e affettato. Il linguaggio del dandy è scelto, ricercato, colto. Il suo guardaroba è idealmente su misura; pone attenzione alla scelta dei tessuti e del taglio, conosce la storia del costume, e preferisce dar di sé un’immagine talmente classica da sfiorare o, in certi casi, toccare una moda passata nel suo abbigliamento: gli accessori fondamentali sono ovviamente quelli caratteristici del guardaroba maschile, come camicia, cravatta, papillon, giacca, panciotto, pantaloni, scarpe, cappello, berretto, mantello, cappotto, pelliccia, guanti; ma anche ghette, polacchini, canne da passeggio, gemelli da polso, solini staccabili – tanto per citare gli accessori più comuni.
Giovanni Boldini, Conte Robert de Montesquieu. Il conte (1855 -1921), è stato un poeta, scrittore e celebre dandy francese.
Tiene alla formalità, ma gioca con le regole. Giuseppe Scaraffia rileva ancora che ama parlare con leggerezza di argomenti importanti, e con gravità di argomenti seri, dando di sé un’immagine artificiosa, e forse superficiale.
Il dandy, asseriva Charles Baudelaire: “vive e dorme davanti ad uno specchio”, e non riconosce leggi altrui se non le proprie – afferma Max Beerbohm -, dichiarandosi un essere amorale – ma non immorale, precisa d’Annunzio nei suoi diari, parlando di se stesso. Il gusto raffinato del guardaroba si traduce in una condotta di vita spesso eccessiva, comunque mai banale, volentieri criticata dalla società, o dai media o dai moralisti in genere.
Disprezza il lavoro e la fatica fisica, preferisce i salotti e i circoli mondani o letterari, ma non trascura i bordelli, il gioco d’azzardo, e i vizi più o meno delittuosi. È uomo prettamente cittadino, e non può esistere se non in una capitale o in un grosso agglomerato provinciale. Può essere d’estrazione borghese o aristocratica, e dell’aristocrazia ama lo stile di vita e l’educazione. Concentra la propria esistenza alla ricerca del Bello, artistico e di costume, e non prevede altro scopo nella propria vita se non la realizzazione di una perfezione ideale e programmatica. Nega l’utilità di ciò che si dice pratico, e detesta l’idea d’essere – come asseriva Baudelaire – “utile a qualcosa”. Nega l’etichettatura, fugge le definizioni e le regole. Per tali ragioni difficilmente ha dettagliati gusti sessuali e ha pendenze politiche: spesso tali personaggi si dichiarano antidemocratici, dando al termine un’accezione più sociale che politica.
Il tempo è per il dandy un continuo scoccare di presenti, di “qui ed ora”, minacciando così ogni culto moderno fondato sul progresso e sull’affanno ideologico, morale e religioso; egli non fatica e non lavora, non entrando quindi nel circolo della produzione e del consumo di massa che tanto aborrisce. Secondo Giancarlo Maresca:“Interrompe una catena infinita di deleghe che l’individuo rilascia al gruppo ed il gruppo ad altri gruppi, assumendo su di sé ogni responsabilità”.
Simile allo snob, il dandy è tuttavia estremamente individualista, rifiuta l’idea d’appartenenza a una classe o a un circolo: egli è al centro di se stesso, uomo vitruviano senza preconcetti o idoli da imitare. Lo snob è stimolato dal manicheismo (questi accetta o rifiuta la moda o un’opinione o una persona in quanto appartenente ad un dato settore sociale ed economico), mentre il dandy verifica la bellezza dall’effetto e non dalla firma; il suo estremo individualismo lo rende più libero di spaziare in campi inesplorati, in atteggiamenti che uno snob riterrebbe sconvenienti e che al dandy donano nella massima misura.
Barbey d’Aurevilly affermava che il dandy è indefinibile; questi è, di fatto, un’astrazione talmente pura che, se non fosse evidente ieri come oggi, potremmo dire tranquillamente di averlo solo immaginato.
A sinistra Charles Baudelaire fotografato da Étienne Carjat, nel 1862. Nell’immagine di destra una caricatura di Isaac Robert Cruikshank. sull’anatomia della “tribù dei dandy” del 1818.
Il dandismo ha avuto protagonisti in varie epoche e dimensioni artistiche, sociali e politiche: sebbene si sia più volte trasformato nelle apparenze, non ha mai variato la sua sostanza, o filosofia di base. Per questo è sempre attuale parlare di dandismo, e per farlo iniziamo con una citazione tratta da “Tragedia e attualità del dandy”, articolo di Jervé a cura di Gustavo Alberto Palumbo del 13 Maggio 2011 sulla testata virtuale «Iconicon»:
“Per quale motivo dovremmo giudicare ultracontemporaneo un movimento al quale molti attingono, per i fini più disparati, pur giudicandolo però in definitiva solo una simpatica ma datata bizzarria dell’Inghilterra vittoriana, un’etica dell’eccentricità, nata già vecchia perché intrisa della nostalgia di un’età dell’oro ideale, in contrapposizione all’orrendo avanzare di quella modernità che degrada a prostituta la Dea Bellezza? Per un motivo tanto semplice quanto tassativo: perché la figura del Dandy è fatta della stessa materia della Tragedia. Il Dandismo è tutt’altro che una patetica gardenia aulente all’occhiello del pensiero di fine Ottocento, è un futuribile pugnale di cristallo affondato nel ventre molle dell’attuale pensiero Mainstream. Allora c’erano i borghesi benpensanti da scandalizzare, per chi consacrava la propria vita all’arte, oggi c’è la trasversalissima categoria dei Mainstreamer – gli individui immersi nel flusso – da scuotere per tentarne un possibile risveglio dall’ipnosi preconfezionata che il pensiero unificato dei media diffonde in modo strisciante”.
Un dandy moderno, volendo mantenere il giusto equilibrio tra eccentricità e basilare eleganza, non disprezzerà la moda in quanto tale (se non come sistema commerciale ad uso del volgo), ma riuscirà a renderla sapientemente complice del proprio stile. Mélanges espressivi di capi moderni e di capi antichi, senza cadere nell’antiquariato se non per provocazione. L’ideale sarebbe una perfetta adesione ai canoni contemporanei, una qualità eccelsa dei materiali e del taglio, ed infine una dimostrazione di un gusto superiore, sublime, che va al di là di ciò che si vede sulle riviste e nelle strade chic delle capitali. Uno stile oltre la moda, una Übermoda.
Pare chiaro come la sartoria diventi un punto nevralgico in questa delicata costruzione di sé: gli ideali non si raggiungono che tramite sforzi sovrumani. Il dandy si accontenta di poco, dacché il sarto è il suo migliore amico e poi che il dandy sia il migliore amico del sarto – questa – è un’altra faccenda.
Il mercato del vintage permette al dandy di risparmiare, e di giocare col fascino del passato. La qualità dei prodotti vintage è spesso eccelsa, anche in quello che fu pret-a-porter; se il classico è lingua morta, abbiamo perlomeno il privilegio di poterlo parlare perfettamente, visto che è oramai impossibile a evolvere, e di prendere il meglio dalle diverse epoche passate. Si tratta di equilibri tanto delicati quanto sovente incomprensibili ai più.
Appuntando una considerazione di rilievo, alle volte il troppo retrò uccide il retrò stesso, mi spiego. Figurini del 1800 vagano per le città e in internet alla ricerca di un riconoscimento pubblico. Costoro non si limitano a un´eleganza fatta di dettagli, ma, fedeli ad un ideale di dandismo piuttosto frainteso, inalberano di tanto in tanto macroscopici cenni ad una realtà che considerano teatrale: una redingote, una bombetta, una canna da passeggio, o un monocolo. Se sono coraggiosi, tutto questo messo assieme. Altrimenti procedono per gradi, a piccoli passi. Invero, sarebbe meglio dire che questi personaggi “retrocedono“. Sono gli adepti, dichiarati o inconsapevoli, del retrò per il retrò. Questi signori, che per la maggior parte godono a prendersi molto sul serio, rifiutano e demonizzano ogni contatto col mondo attuale ch’essi chiamano, con un certo livore o disprezzo, “moderno“. Quasi tutti loro si credono fortemente dandy perché questo par loro il meccanismo da oliare costantemente: un incontrollabile arretrare del tempo sociale e personale. Fanno pensare a certi mobili moderni, malamente intagliati nello “stile antico”, e venduti con una vernice già scrostata ed una finta patina sugli ammennicoli dorati che non hanno mai inteso brillare.
A sinistra: un dipinto del pittore e scrittore Massimiliano Mocchia di Coggiola. A destra “Due secoli di storia del Politecnico” di Hervé Loilier, del 1986. In particolare l’ultimo dipinto mostra come l’eleganza era usata soprattutto anche in ambito militare.
La figura del dandy non ha una sede fisica fissa e stabile: sicuramente le grandi città offrono molto dello stile di vita che questa figura ambisce ad avere. Il dandy deve solo scegliere ciò di cui ha voglia, seguendo le proprie disposizioni spirituali. Dunque, le capitali europee e americane come Londra, Parigi, Roma, Milano, o New York e San Francisco costituiscono sicuramente i poli di attrazione più conosciuti. Il dandy dei secoli passati eleggeva domicilio in una di queste città, preferibilmente europea per via della cultura inevitabilmente infusa in tra le pietre stesse dei palazzi. Un dandy in provincia non esiste, se non nei fine settimana (e con grande fatica), o per ragioni particolarissime. Il sonno profondo in cui dorme l’Italia è sopportabile soltanto nel considerare l’eleganza che certi luoghi emanano ancora, a sprezzo dei barbarismi atlantisti importati per comodità e gusto del facile guadagno dalle nostre parti.
A partire dai quarantacinque anni in poi, almeno così pare, è difficile convincere un adulto di aver sbagliato, di aver mal giudicato, di portare i paraocchi come i cavalli da tiro. Soddisfatti della loro vita e della loro tintarella, gli intellettuali giovanilisti (già, ché spesso lo sono loro malgrado) non hanno più l’età né il fisico per addentrarsi nelle nuove correnti sotterranee che ribollono nei club delle capitali dell’arte e della mondanità mondiale. Ecco perché il dandismo di oggi è essenzialmente affare dei giovani. E non dei “giovani sessantenni”, ma dei giovani ventenni, trentenni, quarantenni.
È mancato loro un pezzetto di educazione reazionaria: raramente sono stati accompagnati dal sarto dal papà, che aveva di meglio da fare, né la governante ha insegnato loro come tenersi a tavola, visto che la governante non l’avevano. I vecchi trovano ridicolo qualcosa che fa parte della loro infanzia, dei ricordi che hanno circa i loro genitori e i loro nonni, dei quali si sono sbarazzati gioiosamente. I giovani, non avendo vissuto tutto ciò, sono abbastanza sensibili da scorgere il lato punk dell’intera faccenda.
Quando il lavoro era inteso come produzione utile al benessere economico dello stato o alla comunità, Baudelaire rifiutava i “professionismi” e dichiara di avere in orrore l’idea di essere utile a qualcuno. L’arte, ieri come oggi, non era considerata un lavoro poiché non se ne vede l’utilità. Ma il dandy moderno – se non vive di rendita e non è un artista di fama – deve a volte scendere a patti col suo tempo; da un certo punto di vista si tratta di compromessi, da un altro si vuole suggerire un adattamento ad un ambiente ostile. Come il canguro siberiano si adatterà – grossomodo – alla giungla amazzonica, così il dandy si adatta al 2000 per non morire e perpetrare il proprio stile di vita. Che si ricorda essere un bisogno concreto, e non una posa. Ricordiamo le parole di d’Annunzio: “Io sono un animale di lusso; e il superfluo m’è necessario come il respiro”. Il lavoro diventa utile al dandy, il quale rifiutando la volgarità di una vita per il lavoro e del lavoro per una vita, può e deve cambiare opinioni, ha il diritto di contraddirsi, di essere ricco e povero, e quindi di scegliere tutti gli “impieghi” che gli sono a genio. Impiegato in banca prima, stilista poi, in seguito pubblicitario, clochard, pasticciere, fotografo pornografico, ballerino, attore, opinionista e via proseguendo.
A destra: Richard Dighton, The Dandy Club -1818. Al centro: Toulouse-Lautrec, Ritratto di Oscar Wilde – 1884. A sinistra: Ken Yang, Narcissus – 2013
Avviandoci verso la conclusione, vi è ancora una domanda che sovente viene posta a chi studia o pratica il dandismo. Una domanda rituale, non banale ma nemmeno tanto complessa: come reagisce un dandy moderno fronte alla tecnologia? Povere creature ridacchiano nell’osservare un uomo elegante al telefono cellulare, o scoprirne il profilo su Facebook. Dicono che “stona”. Tale reazione trova origine nell’opinione comunemente condivisa che il dandy sia un personaggio retrogrado, attaccato eccessivamente al passato – un “passato” mai ben definito -, e ansioso di riportare il proprio modus vivendi ai tempi in cui Iphone e aeroplani non esistevano ancora. Un’opinione che, dicevamo, non è avulsa da una certa ingenuità, poiché si tende a credere che tali invenzioni volgarizzino in qualche maniera la qualità della vita odierna. Ma perché? Come sempre, la sostanza sta nella differenza tra il come tali mezzi siano percepiti e utilizzati da una determinata persona, e non nei mezzi (o oggetti) in sé.
“Che dite? …E’ inutile? …Lo so! Ma non ci si batte nella speranza della vittoria! No, no, è molto più bello quando è inutile!“. Così Cirano de Bergerac. La rivolta del dandy era e resterà sempre inutile, al di là della visione romantica che gli storici possono dargli, o sociologica. Che il dandy si renda conto del proprio ruolo di sovversivo non è dato sapere: nel passato probabilmente no: l’eleganza, che è fatta di dettagli, saltava agli occhi degli eleganti stessi, fossero esteti o semplici impiegati. Oggi invece, più che mai salta agli occhi lo stridente contrasto tra una bruttezza violenta, permanente, alla quale tutti paiono essersi abituati, e l’eleganza dell’esteta moderno.
Inesorabile, il dandy prosegue per la sua strada; i passanti lo fermano, a volte per ridergli in faccia, a volte perché innervositi dalla sua esistenza, a volte per complimentarsi: “Ce ne fossero ancora di persone così eleganti come lei!”, dice una signora in jeans e maglietta. Una battaglia persa è sempre più chic di una vittoria schiacciante: la triste consapevolezza di battersi per un ideale già schiacciato dalla volgare baraonda dei vincitori dà altra dignità all’estetismo odierno. Non era forse un dandy nostrano, Curzio Malaparte, a parlare dell’eleganza dei vinti?
Per approfondimenti:
_AA.VV., I nuovi dandies; Franco Angeli, 2006.
_B. d’Aurevilly, Del dandismo e di G. Brummell; Studio Tesi, 1994.
_H. de Balzac, Trattato della vita elegante; edizioni ETS, 1998.
_Charles Baudelaire, Il pittore della vita moderna; Marsilio, 1994.
_M. Beerbohm, Dandy e dandies; Studio Tesi, 1987.
_Albert Camus, L’uomo in rivolta; Bompiani, 2000.
_I. Comi, Universo figurato di un dandy; Stefanoni, 2004.
_I. Comi, George Bryan Brummell; Stefanoni, 2008.
_I. Comi, Il periglioso osare nell’ineffabile – dieci fazzoletti per un dandy; Stefanoni, 2005.
_G. Franci, Il sistema del dandy (Wilde, Beardsley, Beerbohm); Pàtron, 1977.
_R. Kempf, Dandies – Baudelaire e amici; Bompiani,1980.
_S. Lanuzza, Vita da dandy; Stampa Alternativa, 1999.
_E. Moers, Storia inimitabile del Dandy; Rizzoli, 1965.
_G. Scaraffia, Dizionario del dandy; Laterza, 1981, Sellerio 2007.
_G. Scaraffia, Gli ultimi dandies; Sellerio, 2002
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