20 Gen Nascita del Melodramma: le origini di una visione
di Edoardo Cellini del 20/01/2017
Come tasselli di un variegato mosaico, furono molti i contributi culturali e le influenze estetiche che arrivarono a comporre l’immagine di una forma spirituale e culturale completamente nuova, che si andava formando in Europa: l’Umanesimo. Senza dubbio furono fondamentali uno spazio e un’epoca, la Firenze del cinquecento; ma le tensioni intellettualistiche che animavano dall’interno questa innovazione culturale, seppero farsi cifra stilistica universale in grado di affermare il valore di una espressione artistica in tutta la sua dirompente visionarietà e sorprendente carica innovativa.
Con il termine Opera, o Melodramma, non ci si riferisce solamente ad un dato genere musicale: esso sta ad intendere, nella sua stessa radice etimologica, la natura dualistica che lo compone: l’espressione del canto (dal greco ‘melos’) e la componente scenico-rappresentativa entro cui si esprime (il dramma, appunto). In termini rigorosi, infatti,“l’Enciclopedia della Musica” (ed. Garzanti) definisce l’Opera come: “lo spettacolo entro cui l’azione teatrale si realizza attraverso la musica e il canto”, aggiungendo, “(…)poiché si avvale di scenografie e, spesso, di azioni coreografiche l’ Opera può essere considerata una delle manifestazioni artistiche più complesse”.
Ma l’intento di coniugare tra loro, parole e musica, recitazione e canto, lirismo e dramma, non nasce da un semplice contributo unitario: occorre anzitutto calarsi nel contesto di un’epoca (sulla fine del XV, inizi XVI secolo) per analizzare da vicino le dinamiche intellettuali e le molteplici influenze artistiche che daranno poi alla luce la moderna Opera lirica. Alla base del nuovo genere ci furono due grandi cambiamenti negli aspetti principali che lo compongono: lo storico Massimo Mila (1910- 1988), nella sua “Breve storia della musica” (ed. Einaudi) annovera in campo musicale “l’avvento della monodia” e in campo letterario “il gusto intellettuale ed umanistico della resurrezione del teatro antico nella sua supposta completezza di parola cantata ed azione scenica”.
Veniamo al primo elemento: occorrerà anzitutto ricordare come la ‘monodia’, (canto ad una sola voce, privo di accompagnamento musicale) viveva già come espressione artistica di largo uso nella musica popolare agli inizi del Medioevo. Da contraltare al canto monodico, le classi intellettuali agli ordini dei signori feudatari e i ceti religiosi dominanti, prediligevano una forma musicale più complessa, quale la polifonia (sovrapposizione di due o più voci) fino a creare lo stile del ‘contrappunto’ (punto contro punto, nota contro nota) quale “arte di sovrapporre due o più linee melodiche (…) come avvenne in tutta la produzione vocale colta fino alla fine del ‘500, o in forme strumentali posteriori”. Le due istanze però non si tennero separate a lungo e presto si dovette assistere alla vittoria della ‘popolare’ monodia sulla ‘colta’ polifonia, con un effetto tale da far piegare le rigidità formalistiche in cui s’era evoluta quest’ultima, verso le forme di un canto sempre più permeato da un maggiore senso tonale: una forma musicale più semplice e – per questo – più ‘sentita’, che costituiva il centro su cui si veniva ad orientarsi ogni ramo della musica profana, dunque, popolare.
Il secondo aspetto, sottolineato dallo storico Mila, che concorse alla creazione dell’Opera fu il suddetto elemento letterario, che portò con sé, sia la rottura con un’epoca, sia la riscoperta delle sue eredità classiche. Se la ‘monodia’ irrompe nelle Chiese e porta il canto a confrontarsi con il vento di rinnovamento che circolava nella piazze comunali sul finire del Quattrocento ad essere messa in discussione fu addirittura gran parte, se non l’intero, dell’ impianto della cultura sino a quel periodo dominante. Gli aspetti e le ragioni, per cui sorse nel nostro Paese un fenomeno unico che coinvolse – nella sua portata – l’intero mondo occidentale di allora, sono molteplici. Ma un dato è certo: il nuovo gusto intellettuale che prese piede nel cinquecento in Italia, fu uno dei maggiori impulsi per la genesi del Melodramma. Gli intenti del nascente Umanesimo partivano da un presupposto chiaro: andare alla riscoperta della parola antica per esprimere intorno al suo valore, le ansie e le attese della modernità. Questo aspetto assunse ben presto i caratteri di una vera e propria “caccia al tesoro”; ad emergere per primi furono i testi del teatro antico, nello specifico, i classici greci. Che valore aveva la parola nel dramma antico? E se essa era sorretta da un valore musicale, in che modo veniva a confrontarsi con esso?
Presto l’interrogativo – preminenza nei drammi classici della musica sulla parola – fu posto nei termini di una vera e propria sfida intellettuale cui gli umanisti risposero in maniera raffinata e sorprendente. Per gli studiosi dell’epoca, assetati com’erano di una ricerca che desse risposte il più possibile ‘armoniche’ e circolari, il quesito non si poneva: la parola nel teatro antico doveva essere cantata e vivere – si supponeva – in perfetta completezza con il dramma dell’azione scenica. Ma la vividezza e la novità con cui tale visione s’impose non deve corrompersi se consideriamo che già in opera medievale si possono rintracciare in talune forme di spettacolo, i germi della futura Opera lirica. Su tutti la celebre rappresentazione “Le Jeu de Robin et Marion” di Adam de la Halle, data alla corte di Napoli nel 1282. Per taluni storici si tratta di una sorta di opera ante-litteram, secondo altri studiosi invece: “non sempre è ravvisabile in questi sporadici tentativi una continuità diretta con la futura opera. Essa è invece reperibile nei vari spettacoli popolari, soprattutto feste e drammi liturgici, che erano diffusi nel Medioevo”. Da qui emerge come anche le ‘sacre rappresentazioni’ erano permeate dall’abbraccio di musica e teatro; sintomatico è però il fatto che tra i primi drammi liturgici di inizio Rinascimento, si scelse di recuperare proprio tematiche classiche: un “Orfeo” del Poliziano fu rappresentato a Mantova nel 1471, “cui si aggiunse una ‘Rappresentazione di Febo e Pitone’ o di ‘Dafne’ avvenuta sempre a Mantova nel 1486” (Massimo Mila, op.cit.).
Gli spettacoli, pur conservando la veste della officialità sacra, sembrano affermare uno spirito del tutto laico e pagano, affrontando tematiche mitologiche e dunque profane. Tali rappresentazioni non devono apparirci come antenati della moderna Opera, quanto piuttosto come veri e propri tasselli del mosaico che andrà a comporne l’immagine completa solo un secolo più tardi. Tra le maggiori influenze alla base del nuovo genere, oltre agli spettacoli sacri, o drammi liturgici, va annoverata quella singolare forma degli ‘intermedi’: episodi scenici e coreografici che fondevano ballo, canto e recitazione, fungendo da intervalli tra un atto e l’altro di drammi, feste o commedie. Ancora dall’Enciclopedia della Musica: “l’avvento della monodia- canto ad una sola voce (n.d.a)- accompagnata e la cura sempre maggiore ad essi dedicata dai musicisti, resero spesso gli intermedi la parte più interessante ed espressiva del complesso spettacolo rinascimentale, facendone gli immediati antecedenti del Melodramma”. Tali intermedi assunsero presto una importanza spropositata, come è possibile constatare nella prefazione della commedia del Lasca, dove è la Commedia stessa – in forma di persona – che si esprime: “Misera, da costor che già trovati fur per servirmi e per mio ornamento, lacerar tutta e consumar mi sento”.
Infine se da un lato gli spettacoli, come commedie o drammi liturgici, assunsero ben presto un carattere ‘popolare’, non è da sottovalutare l’apporto – per la creazione dell’Opera – di un altro ‘sotto-genere’ della stessa: la favola pastorale.
Tale rappresentazione fu la forma prediletta dalla società intellettuale agli inizi del Cinquecento e i motivi si possono scorgere facilmente: gli episodi scenici presentano tematiche simbolico-allegoriche di forte rimando idillico-bucolico, un carattere musicale che presupponeva l’alternanza tra recitato e cantato (nella nuova forma della melodia) ed infine l’inclusione di forme coreografiche e balletti. Tra le rappresentazioni le più note furono sicuramente: “L’Egle” di Giambattista Giraldi Cinzio, e il “Sacrificio” di Agostino de’ Beccari, del 1554. Quest’ultimo sicuramente interessante perché fondato su una concezione del canto nettamente monodica, ferme restando, le influenze ‘severe’ del canto gregoriano. Alfonso della Viola – Maestro di Cappella del duca Ercole II d’Este – fu uno dei musicisti più attivi, sue furono le musiche del “Sacrificio”, ma anche dell’ “Aretusa” su testi del Lollio (1563) e “Lo Sfortunato” dell’ Argenti (1567). Stante la popolarità dei suddetti generi, fu solo nel 1589 che, convenzionalmente, si vedono per la prima volta affiorare le radici del Melodramma.
Quell’anno infatti vide le nozze, a Firenze, del Granduca Ferdinando I con Cristina di Lorena; all’evento parteciparono quasi tutti i musicisti che poi diedero vita al nuovo corso: durante la festa vennero rappresentati circa 26 intermedi nei quali, al virtuosismo dei cantanti, facevano da sfondo lussureggianti ornamentazioni. L’evento dovette mutare radicalmente la concezione della ‘forma spettacolo’ che albergava già nella mente degli artisti fiorentini. Questi, ben prima di creare gli intermedi di quel 1589, avevano l’abitudine di riunirsi a Firenze nel palazzo di proprietà del conte Giovanni Bardi di Vernio (1534-1612) per formare una schiera di intellettuali che discutesse circa quel problema di fondo che li assillava: si poteva davvero conoscere l’antica musica dei Greci? In che modo essi potevano farla rivivere nei tempi moderni?
Il circolo del conte presto ribattezzato la “compagnia de’ bardi”, seppe approdare al compimento di una poetica che rappresentava la visione unitaria e organica dei vari tentativi messi in atto sino ad allora. Le forme della rappresentazione greca, secondo gli studiosi, potevano e dovevano essere rinnovate solo attraverso l’uso accorto della monodia. La parola antica per rinascere nel dramma moderno, doveva essere dunque spogliata degli orpelli contrappuntistici fino ad imitare la lingua stessa del parlato, ridonandole – grazie ad una sola linea di canto – nuova luce e significato. Tale processo fu sintetizzato, in maniera esemplificativa, nella nuova teoria del “recitar cantando”; detta forma, del ‘recitativo’ appunto, viene descritta come lo “stile di canto tendente a riprodurre, attraverso una recitazione intonata, la naturalezza e la flessibilità della lingua parlata”. Viene inoltre specificato che tale stile “è caratterizzato da due elementi fondamentali: un ritmo libero e irregolare, modellato su quello verbale (…) e la mancanza di un’autonoma struttura formale, che, che è sostituita da un libero modellarsi della musica sui nuclei sintattici del testo”.
L’idea di adoperare il canto per mettere in luce la parola fu accolta con entusiasmo dai musicisti fiorentini. Tra i principali ispiratori della nuova teoria troviamo, membri della “compagnia de’ bardi”, il liutista Vincenzo Galilei (1533- 1591), autore di un trattato, dal titolo significativo: “Della musica antica e della moderna” (1581), il cantore romano Giulio Caccini (1550-1618), il fiorentino Jacopo Peri (1561-1633) e il romano Emilio de’Cavalieri (c.1550-1602). Ma tra i musicisti che avevano preso parte all’allestimento degli intermedi fu probabilmente Caccini il primo che adoperò il nuovo stile musicando in forma di Opera la Dafne di Ottavio Rinuccini.
I testi di quest’ultimo furono musicati anche da Peri, il quale si propose di “imitar col canto chi parla”. La storia di Mila (op.cit.) riporta le parole di Caccini che sposano appieno le tesi del compagno, quando dice, nella prefazione alla propria “Euridice”: “non avendo mai nelle mie musiche usato altr’arte che l’imitazione dei sentimenti delle parole”.
Gli umanisti fiorentini seguirono l’impianto di tale poetica con tutta la radicalità che una nuova scoperta porta con sé. Sicchè le prime opere risentirono inevitabilmente degli schemi intellettualistici entro cui erano mosse, presentando – nella messa in scena dei primi drammi una netta preminenza del ‘recitativo’ – scarne modulazioni (passaggi da una tonalità ad un’altra), e artificiosità meccanica del ritorno alle solite tonalità (quasi sempre contrapposizione di modo maggiore con il modo minore, oppure transizione alla dominante). Nel ‘recitar cantando’ vi era anche, per dirla con Massimo Mila (op.cit.): “la libertà del discorso, l’assenza di ogni quadratura strofica, la perfetta adesione all’organismo sintattico del testo” a conferire al genere “una duttilità inesauribile”.
Fu questo dunque il percorso che, passando per il recupero degli schemi precedenti (drammi liturgici, intermedi, favole pastorali), seppe superare tali influenze, che pure avevano dato un contributo determinante in termini espressivi, per giungere alla creazione di una forma di rappresentazione artistica destinata a durare nei secoli.
Per approfondimenti:
_Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay – Storia della musica – edizioni Piccola biblioteca Einaudi
_Elvidio Surian – Manuale di storia della musica, vol.1 – edizioni Rugginenti (6°)
_Enciclopedia della musica, edizioni Garzanti
_Massimo Mila, Breve storia della Musica – Edizioni Einaudi
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