Ma una condanna così aspra verso l’uso del linguaggio metaforico può far correre dei grossi rischi. Se si sostiene che la metafora vada letteralmente bandita dalla filosofia, bisogna stare attenti a non utilizzarla inconsapevolmente. Bisogna verificare che ogni singola parola che si enuncia non sia metaforica. Una cosa del genere sarebbe molto poco umana, soprattutto in filosofia. A livello linguistico, la metafora non è qualcosa di cui ci si può sbarazzare, non è qualcosa di superfluo, non è una pesante zavorra priva di contenuto. La metafora è uno strumento necessario per favorire la comprensione e, in alcuni casi, l’unico mezzo che abbiamo per poterci esprimere. Spesso si utilizzano tantissime espressioni metaforiche senza che ci si renda conto della loro presenza, oppure le si utilizza proprio quando si ha intenzione di criticarle. Questo e il caso di Condillac, che non è esente da questi meccanismi. In questo spazio non riporterò tutte le metafore presenti nel Trattato dei sistemi, nemmeno le metafore composte da singole parole, sarebbe quasi impossibile e neanche tanto corretto perché paradossalmente, significherebbe prendere troppo alla lettera l’opinione di Condillac. Riporterò, dunque, solo alcune grandi metafore, quelle che ritengo più palesi, e che portano in contraddizione il pensiero dell’autore dell’Art de raisonner (arte del ragionamento).
Nel Traité des systemes Condillac utilizza otto grandi esempi per dimostrare l’inesattezza dei sistemi astratti. Alcuni di questi sono capitoli dedicati interamente a una critica analitica dei sistemi di filosofi come Malebranche, Leibniz, Spinoza. Altri invece sono degli esempi inventati appositamente per rafforzare il proprio argomento. Ricordiamo che in retorica gli esempi sono «una particolare forma di argomentazione […] sono storici e inventati: tra questi ultimi si classificano le favole di tipo esopiano»(Mortara Garavelli, 2008, p. 132-133). Condillac, nel capitolo quarto del Traité, per evidenziare gli errori derivanti dai sistemi astratti, chiama esempi ciò che in realtà sono due grandi metafore. La prima è quella del cieco nato: «Un cieco nato, dopo molte domande e molte riflessioni sui colori, credette infine di scorgere l’idea di scarlatto nel suono della trombetta. Indubbiamente bastava dargli degli occhi per fargli capire quanto la sua fiducia era mal riposta. Se vogliamo andare a vedere come aveva ragionato riconosceremo la maniera dei filosofi»(Condillac, 1977, p. 28). Condillac criticando l’analogia dello scarlatto con il suono della trombetta, compie egli stesso un’analogia tra questo modo di ragionare del cieco e quello dei filosofi che lui critica. La seconda metafora che utilizza è quella dei sette pianeti e delle sette note musicali: «È manifesto, comincerò col rilevare, che, come ci sono sette note musicali, così ci sono sette pianeti. In secondo luogo posso supporre che chi si rendesse conto della grandezza di questi pianeti, delle loro distanze o di altre qualità, troverebbe fra di esse una proporzione simile a quella che deve sussistere fra sette corpi sonori posti in ordine diatonico. Ammesso questo (si può supporre tutto ciò che non è impossibile: e chi, d’altra parte, potrebbe provare il contrario?), niente impedirebbe di riconoscere che i corpi celesti formano un perfetto concerto»(ivi p. 29-30). In questo caso, utilizza lo stesso sistema della prima metafora solo con tono più sarcastico. Critica l’assurdità dell’analogia tra le note musicali e i pianeti, usando questo argomento come analogia con il modo di ragionare dei filosofi che utilizzano sistemi astratti. E il bello è che conclude questo capitolo con la seguente affermazione: «gli uomini dovrebbero servirsi di espressioni metaforiche soltanto con grandi precauzioni. Si fa presto a dimenticare che sono solamente metafore: si prendono alla lettera e si cade in errori ridicoli»(ivi p. 32). Un’altra metafora evidente si trova nell’articolo quinto del capitolo ottavo del Traité, quando critica il principio di Leibniz che vede ogni singola monade capace di avere un’infinità di percezioni e di rappresentare tutto l’universo. «Se dicessi: un lato di un triangolo ha dei rapporti con gli altri due lati e coi tre angoli; dunque questo lato rappresenta la grandezza degli altri due e il valore di ciascun singolo angolo, la falsità della conclusione sarebbe manifesta. Ciascuno sa che per una simile rappresentazione non basta la conoscenza di un lato. Allo stesso modo io dico che la rappresentazione dell’universo non può essere racchiusa nella conoscenza di una sola monade» (ivi p. 101).
Per criticare un principio astratto, basato su concetti inventati, inventa un’analogia con il mondo della geometria, che all’apparenza può sembrare più accreditabile, ma sempre di analogia si parla, quindi, di traslazione semantica, di metafora. Un’altra macro-metafora si trova nel capitolo quattordicesimo, in cui, attraverso una supposizione, vuole render ragione della natura del filosofo naturalista. «Supponiamo che un uomo privo di qualunque nozione nel campo dell’orologeria e anche della meccanica tenti di dar ragione dei movimenti di un orologio a pendolo: ha un bell’osservare come suona a certe ore e come si muovono le frecce, dato che non conosce la statica, gli è impossibile spiegare tali fenomeni in modo ragionevole. […] apritegli l’orologio a pendolo, spiegategliene il meccanismo; subito egli coglie la disposizione di tutte le parti, vede come agiscono le une sulle altre e risale al primo congegno da cui dipendono. Solo da questo momento in poi conosce con sicurezza il vero sistema che rende ragione delle osservazioni che aveva fatto. Quest’uomo è il filosofo che studia la natura»(ivi p. 204). Il filosofo della natura è l’uomo che impara il meccanismo dell’orologio; più metafora di questa. Non utilizza neanche l’avverbio come, dice propriamente che quell’uomo è il filosofo. Non è quindi soltanto un esempio o un paragone, ma una metafora vera e propria. Il filosofo francese sembra andare spesso in contraddizione utilizzando di continuo ciò che critica così aspramente. C’è un passo del capitolo terzo in cui, criticando i filosofi che fanno divenire le definizioni di parole delle definizioni di cose, promuove una metafora del suo filosofo preferito: «Ma somiglia, come osserva Locke in un caso analogo, a uomini che, senza denaro e senza cognizione della moneta in corso, contassero delle somme rilevanti con gettoni a cui dessero il nome di luigi, lire, scudi. Qualunque calcolo facessero, il risultato si ridurrebbe sempre a gettoni; qualunque ragionamento faccia un filosofo come quello di cui parlo, le sue conclusioni saranno sempre soltanto parole»(ivi p. 23). In questo caso, la metafora dell’empirista inglese è accettabile, anzi, necessaria per chiarire il concetto.
A questo punto mi si potrebbe muovere l’obiezione che alcune delle metafore da me individuate in realtà sono esempi tratti dall’esperienza. Condillac sembra esprimersi su questo, quando ammette di usare le supposizioni e le analogie: «Nella mia logica ho spiegato la sensibilità, la memoria e quindi tutte le abitudini dello spirito. È un sistema in cui ragiono sulla base di supposizioni; ma sono tutte supposizioni suggerite dall’analogia. I fenomeni ci si sviluppano naturalmente, si spiegano con molta semplicità; tuttavia riconosco che supposizioni come le mie, quando si fondano soltanto sulle analogie, non hanno la medesima evidenza di quelle suggerite e confermate dall’esperienza stessa; infatti, se l’analogia può non permettere che si dubiti di una supposizione, solo l’esperienza può conferirle evidenza; e, se non si deve respingere come falso tutto ciò che non è evidente, non bisogna neanche guardare come verità evidenti tutte le verità di cui non si dubita»(ivi p. 193).
Piuttosto che dire che è l’esperienza a conferire evidenza alle sue analogie, io direi che sono metafore dell’esperienza. Il fatto che Condillac tragga dall’esperienza le sue analogie, parlando di un cieco nato, di un orologiaio, dei lati di un triangolo, non lo pone in una posizione differente dai filosofi che lui stesso critica. Questo perché ogni volta che utilizza queste metafore lo fa sempre per spiegare qualcos’altro. Muove una sostituzione, una traslazione semantica. Quando parla dell’uomo che impara le regole dell’orologeria, non lo fa per parlare di meccanica o di orologeria, lo fa per dire che bisogna conoscere ciò di cui si parla per poter costruire un sistema. Usa la metafora di un fatto particolare per mettere in evidenza un qualcosa di più grande, che è il suo discorso sui sistemi di pensiero.
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