Konrad Lorenz: Nude malum: il male che non nuoce

di Danilo Sirianni del 06/01/2017

Si Deus est unde malum? Se Dio esiste, da dove viene il male? Come giustifichiamo la bontà e la giustizia di Dio di fronte ai mali del creato? Nel corso dei secoli, le risposte a queste leibniziane domande di teodicea (termine filosofico, introdotto da Leibniz, per riassumere il problema, presente in molte religioni, della sussistenza del male nel mondo in rapporto alla giustificazione della divinità e del suo operato) sono sempre state legate più al concetto di δίκη (giustizia) che al concetto di ϑεός (Dio).

Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646–1716), è stato un matematico, filosofo, scienziato, diplomatico, giurista, storico, magistrato tedesco di origine soraba.

Già gli antichi babilonesi consideravano l’origine del male legata al dio Marduk, salito al trono grazie al dio della giustizia An. Sia nella Bibbia ebraica che in quella cristiana, più precisamente nel libro di Giobbe, viene enucleato il concetto di giustizia retributiva, cioè che il male, il dolore, la sofferenza, fossero la punizione da scontare per aver commesso azioni ingiuste. Per Agostino d’Ippona nella teoria della non-sostanzialità del male, il male nasce da una privazione di bene e, come tale, è un non-essere. Chi commette azioni ingiuste compie una privazione di bene. L’ingiusto deve redimersi e può farlo solo attraverso la punizione e il castigo, cioè adoperando su se stesso quella privazione di bene provocata agli altri. Ma, nonostante il concetto etico di giustizia fosse il protagonista indispensabile per dare ragione dei mali del creato, in queste prospettive, il ϑεός (Dio) è sempre stato il sistema di controllo finale al quale l’etica doveva sottomettersi. Nel problema del male, l’etica non godeva di nessuna autonomia, era soltanto un braccio armato della teologia.
E se Dio non esiste, da dove viene il male? O più semplicemente: da dove viene il male? Unde malum? Non è facile emanciparsi da una petitio principii, soprattutto quando nelle premesse si presuppone l’esistenza di Dio, ma è doveroso provarci. Il dibattito è immenso, lo spazio ridotto. Cercherò di selezionare e di riassumere per sommi capi (seguendo un ordine più tematico che cronologico) le posizioni più importanti che hanno messo in discussione il concetto di ϑεός (Dio), in modo tale da giungere gradatamente al fulcro della dissertazione.

Mephisto di Mark Antokolski del 1883

Già nell’enigma di Epicuro il concetto di Dio viene portato al paradosso proprio attraverso il problema dell’esistenza del male: «se Dio vuole impedire il male ma non può, non risulterebbe onnipotente; se può impedirlo ma non vuole, risulterebbe maligno; se non può e non vuole risulterebbe maligno e impotente. Ne consegue che Dio, per essere tale, può e vuole, ma dato che il male esiste, allora Dio non si interessa dell’uomo». La stessa struttura argomentativa verrà ripresa in età moderna da David Hume che, nei Dialoghi sulla religione naturale, arricchisce il tema con il suo approccio scettico. Sempre scettico l’approccio di Pierre Bayle, in seguito criticato da Leibniz per aver negato l’onnipotenza di Dio sulla base dell’esistenza del male. Per Kant invece il discorso si complica. Il suo approccio, che può essere definito come un teismo scettico, cerca di dare ragione di un male radicale negli uomini attraverso la concezione di una sorta fede filosofica. In queste posizioni, l’apparato teologico comincia a vacillare seriamente, ma continua comunque a resistere come metro di misura finale che impedisce a quello etico di emergere in maniera indipendente.
Nella teoria politica di Thomas Hobbes è possibile riconoscere “un male” non più considerato esclusivamente nel rapporto teologico uomo-dio, ma anche nel rapporto etico uomo-uomo. Hobbes, nel Leviatano (1615), sosteneva che Dio dà la legge di natura; questa legge, che determina lo stato di natura dell’uomo, prevede l’uguaglianza dei diritti per ogni ente; nello stato di natura ognuno ha diritto a ogni cosa e gli uomini ingaggiano così una guerra di tutti contro tutti: bellum omnium contra omnes, homo homini lupus. Il male trae origine dai rapporti tra gli uomini, non è più una creazione degli dei, una sottrazione del bene divino, una sentenza o un disinteresse celeste. Nonostante all’inizio della catena ci sia ancora Dio, il male per Hobbes proviene dalla nostra innata natura bellica di sopraffazione del prossimo. Il ϑεός (Dio) ha ancora l’ultima parola, ma l’etica comincia a farsi sentire.

L’espressione latina homo homini lupus (letteralmente “l’uomo è lupo per l’altro uomo”), il cui precedente più antico si legge nel commediografo latino Plauto (lupus est homo homini, Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495), riassume efficacemente un’antica e pur attuale concezione della condizione umana che si è tramandata e diffusa nei secoli, lasciando tracce di sé sia nel pensiero colto sia in alcuni detti popolari e motti di spirito. Si riferisce all’istinto innato dell’uomo di sopraffare il proprio simile, come il lupo che, per sopravvivere, sbrana il più debole. Nella foto: gargolla sulla facciata della cattedrale di Nidaros Trondheim in Norvegia.

Duecento anni dopo, Arthur Schopenhauer riprenderà questa visione sostenendo che la sostanza unica che accomuna tutti gli esseri viventi, la celebre volontà schopenhaueriana, sia una forza irrazionale, un desiderio incontrollabile che lotta contro il nostro intelletto per affermarsi. Il male è un problema umano, ognuno lotta per affermare la propria volontà di vivere sull’altro. Il mondo è così, anche per Schopenhauer, una lotta di tutti contro tutti, ma la differenza sostanziale con la teoria hobbesiana è che qui il ϑεός scompare definitivamente, non c’è nessuna derivazione divina, il male proviene dalla cosa in sé. Ma, anche se in questa visione l’aspetto teologico viene eliminato, l’etica di Schopenhauer arriva solo a un passo dalla totale emancipazione. Il male viene ancora giustificato attraverso una deterministica, totalizzante, metafisica cosa in sé. Per arrivare alla definitiva “dichiarazione d’indipendenza” dell’etica riguardo il problema dell’origine del male c’è bisogno di spingersi ancora più avanti di un secolo.
Nel 1962 Konrad Lorenz, il padre dell’etologia contemporanea, scrive Das sogenannte Böse: Zur Naturgeschichte der Aggression (L’aggressività: il cosiddetto male). In quest’opera Lorenz sostiene che ciò che noi identifichiamo eticamente come “male” sia lo sviluppo degenerato di un impulso aggressivo, presente in tutti gli esseri viventi. L’aggressività è un istinto, un impulso biologicamente adattivo, spontaneo e innato in tutte le specie. Niente Dio, niente cosa in sé. L’aggressività è un impulso biologico, punto. A primo acchito, la visione lorenziana sembrerebbe la naturale evoluzione secolarizzata delle teorie precedenti. Una teoria scientifica in stile novecentesco, legata sì all’etologia e alla biologia degli esseri viventi, ma che prende comunque le mosse dalla concezione di una innata condizione di peccato e corruzione. Ma la visione di Lorenz segna una frattura decisiva con i suoi predecessori e mette luce su cosa sia il male negli esseri viventi e da dove esso tragga origine. In primo luogo è necessario porre una differenza tra i termini: violenza e aggressività. Lo stato di guerra di cui parlano Hobbes e Schopenhauer è uno stato di violenza, egoista, insocievole, caotico, di sopraffazione, fine a se stesso. Gli esseri viventi del Leviatano, per sopravvivere senza uccidersi tra loro, devono rinunciare a tutti i loro diritti di natura in favore di un potere assoluto esercitato da un unico legislatore e sovrano. Il concetto di aggressività innata in Lorenz, invece, è uno strumento di organizzazione degli esseri viventi che permette la conservazione della vita. L’istinto aggressivo o combattivo ha la specifica funzione di garantire la sopravvivenza dell’individuo e della specie. L’aggressività permette la convivenza, addirittura, senza di essa non sarebbero possibili neanche vincoli personali come l’amicizia, l’amore e la tolleranza. In Lorenz, dunque, il concetto di aggressività ha un tono totalmente diverso da ciò che si intende comunemente con questa parola, soprattutto da ciò che intendeva Hobbes. Inoltre, Lorenz non sarebbe stato affatto d’accordo con la metafora del lupus, dato che egli notò che il lupo, ai fini di frenare il conflitto, offre all’avversario – che riconosce come superiore – il lato marcato estremamente vulnerabile del suo collo, instaurando così un rapporto di pace. L’aggressività non è violenza. In Lorenz questo termine assume un valore positivo. L’aggressività è lotta, è combattività. Io stesso, mentre scrivo queste righe mi rendo conto di essere molto combattivo. Scrivere una dissertazione è una piccola lotta, ed ogni lotta, in qualunque misura venga intrapresa, è vita. Quante volte sentiamo pronunciare frasi come: “le sfide della vita“, o “la vita è un eterna lotta“? Queste riflessioni dossologiche in Lorenz si confermano da un punto di vista etologico, dimostrando, attraverso lo studio del comportamento animale, l’importanza dell’istinto aggressivo. Tema fondamentale de L’aggressività di Lorenz è la lotta intra-specifica; così scrive lo stesso autore nella premessa: «il libro tratta dell’aggressività, ossia della pulsione combattiva, nell’animale e nell’uomo, diretta contro appartenenti alla stessa specie». Lorenz e gli etologi in genere, sono soliti distinguere l’aggressività rivolta a individui di specie diversa (lotta inter-specifica) da quella che si estrinseca nei confronti degli individui della stessa specie (lotta intra-specifica). Di fatto, la prima è essenzialmente diversa dalla seconda. Ciò che spinge un animale a cacciare è differente da ciò che lo spinge al combattimento con un suo simile. La domanda è: perché mai attaccare un individuo della stessa specie? Negli animali, nota Lorenz, ci sono diverse spiegazioni: il territorio, l’accoppiamento, l’istituzione di una gerarchia* per la conservazione della specie, l’evoluzione, la selezione naturale. Nell’uomo diventa più problematico. Per l’etologo austriaco, nel mondo animale non esiste un reale pericolo che una specie si estingua a causa dell’aggressività, anzi, è proprio l’opposto; nell’uomo, invece, questo pericolo è assai presente. Egli sostiene che nel caso del genere umano il ritmo dello sviluppo naturale ha creato condizioni alle quali l’uomo non è filogeneticamente preparato. Siamo nel pieno dell’involuzione. L’uomo non si adatta più all’ambiente: adatta l’ambiente a sé. Attraverso un uso improprio e degenerato della τέχνη (Techne, tecnica) crea armi di distruzione di massa, pigiando un semplice tasto è capace di decidere la sorte di interi popoli.

Konrad Zacharias Lorenz (1903-1989) è stato uno zoologo ed etologo austriaco. È considerato il fondatore della moderna etologia scientifica, da lui stesso definita come «ricerca comparata sul comportamento» (vergleichende Verhaltensforschung).

I deterrenti atomici con i quali minaccia di fare la guerra da un momento all’altro, i missili intelligenti lanciati a distanza e capaci di raggiungere il bersaglio riducendo le possibilità di fallimento al minimo. Certo, è paradossale concepire il “non aver distrutto migliaia di vite” come un fallimento, evidentemente queste persone sono troppo poco aggressive. È proprio questo il punto. Lorenz sosteneva che l’uso di queste moderne armi comandate a distanza esclude il contatto diretto con l’aggredito. Ciò ne aumenta la pericolosità, perché per queste ragioni, nella specie umana mancano molti dei meccanismi auto-inibitori** dell’aggressività presenti nelle specie non umane. Il comportamento aggressivo diventa fine a se stesso, perde il suo carattere di conservazione della specie e si trasforma in folle distruttività intraspecifica. Del resto, chi avrà più traumi, chi vedrà più fantasmi, l’uomo che a distanza di migliaia di chilometri fa esplodere un ordigno atomico pigiando un tasto seduto comodamente sulla poltrona del suo laboratorio, o un uomo che accoltella un altro in uno scontro ravvicinato? Il metodo lorenziano di osservazione del comportamento animale ci consegna delle importanti informazioni sul funzionamento dell’istinto aggressivo. Se osserviamo il comportamento delle oche, delle quali Lorenz diventa genitore adottivo, notiamo che i maschi per allontanare i nemici dal loro territorio ed evitare gli scontri cantano. Inoltre attirano anche gli esemplari femmina per garantire la riproduzione. Questo processo è chiamato da Lorenz ri-direction activity, ovvero, ri-direzione dell’aggressività. Si pensi a quella specie particolare di scimmie del Congo chiamate bonobo. La loro società è improntata sulla pacifica convivenza. È una specie di Homo dotata di una sviluppata sensibilità. I suoi membri riescono ad essere gentili pazienti, altruisti, solidali. L’aggressività intra-specifica è quasi del tutto assente perché riescono ad attuare una ri-direction activity di particolare successo: incanalano l’istinto aggressivo nella pratica sessuale. Di fatto è l’unica specie vivente oltre l’uomo a praticare rapporti che vanno al di là della semplice riproduzione. Vivono in una comunità matriarcale dove persino i maschi adulti dipendono dalle madri e restano tutta la vita nel gruppo dove sono nati; dove le femmine sono il sesso forte della specie e non mostrano nessuna soggezione nei confronti del maschio al quale non viene concesso nessun diritto di precedenza; dove viene praticato, insomma, una sorta di selvaggio eterno femminino in cui la donna è simbolo in terra dell’amore, si identifica con esso e con esso si eterna. I bonobo sono dunque molto legati fra loro, pacifici, filantropi. Gli animali, dunque, attraverso il loro comportamento, ci dimostrano che in natura la pace è possibile e si ottiene incanalando l’aggressività istintuale.
Alcuni studiosi hanno considerato il problema dell’aggressività nell’uomo come conseguenza di una frustrazione. Lo psicologo John Dollard (1967), ad esempio, si basava sull’assunto di Freud che «per frustrazione intendeva lo stato psicologico di insoddisfazione, irritazione o delusione provocato dall’impedimento o interruzione di un atto tendente a soddisfare un bisogno dell’individuo. La reazione primordiale al blocco di un impulso istintivo sarebbe uno scoppio di aggressività diretta contro la persona o l’oggetto vissuto come fonte d’interferenza». Si apre così un quadro teorico che permette di ipotizzare che nell’uomo, il non ri-dirigere l’impulso aggressivo come ci suggerisce Lorenz, o il mancato compimento di una risposta-meta,*** come articola Dollard, crea degli stati di frustrazione che possono scatenare delle violente risposte aggressive intra-specifiche.
Ricapitolando queste argomentazioni possiamo finalmente azzardare una risposta sull’origine del male. Sappiamo ormai che ogni specie vivente è dotata di un istintuale, innato, impulso aggressivo. Se questo impulso, invece di essere ri-diretto in una attività pacifica che ne permetta lo sfogo, viene bloccato, genera frustrazione e una conseguente reazione violenta. Ecco da dove ha origine il male. Dalla castrazione della nostra aggressività istintuale.
Per concludere, Lorenz rivoluzionò il modo classico**** di studiare gli animali: non li esaminava in laboratorio, ma viveva con loro, ne condivideva la quotidianità e partecipava da scienziato attento e rigoroso dei loro rituali. Quest’incessante attività gli permise di capire dei lati essenziali del loro comportamento e, inevitabilmente, anche di quello umano. Grazie al suo amore per gli animali e per la scienza riuscì a emanciparsi dalle precedenti e artificiose posizioni sull’origine del male proponendo una teoria semplice, realistica, scientifica. Localizzò il problema in una dimensione biologica, lo distinse dalla mera violenza, frutto di castrazione, e propose un rimedio: la ri-direzione. Non c’è bisogno di scomodare nessuna teologia, nessun teismo, nessuna metafisica. Dunque, abbiamo così raggiunto l’indipendenza dell’etica sul problema dell’origine del male. Un’etica che, finalmente, senza ostacoli trascendentali, si può occupare del riconoscimento, della gestione e del controllo di questa pulsione attraverso l’organizzazione di attività che ne permettano una deontologica ri-direzione. Un’etica che si trova nell’educazione, nella scuola, nella famiglia, in un tessuto sociale che non si basi sulla fredda castrazione di sogni, bisogni e aspirazioni, ma che garantisca possibilità di azione e realizzazione concreta dell’individuo. Lo stesso Lorenz suggerisce che l’istinto aggressivo va incanalato verso forme di scarica periodica come le competizioni sportive, l’entusiasmo per la scienza e per le arti, gli hobby e qualsiasi altra attività che possa fungere da convoglio. Si tratta di una vera e propria catarsi, che ha come scopo quello di impedire il male, ovvero l’aggressione socialmente dannosa, la violenza, per permettere la conservazione della specie umana. Una catarsi dunque, una purga dai mali, proprio come la catarsi conclusiva del Faust di Goethe, opera tanto cara al nostro Lorenz, nella quale Faust si libera dai pesi e dai mali del mondo proprio per effetto di amore.
«Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l’imperfetto qui si completa, l’ineffabile è qui realtà, l’eterno femminino ci attira in alto accanto a sé».
Johann Wolfgang von Goethe

 

Note
* Un principio ordinatore, senza il quale non può evidentemente svilupparsi una qualunque convivenza comunitaria fra animali superiori è il cosiddetto “principio gerarchico”. Esso consiste semplicemente nel fatto che ognuno degli individui viventi nella comunità sa chi sia più forte o più debole di lui, in modo che ognuno si possa tirar indietro senza lottare davanti al più forte e possa, a sua volta, pretendere che il più debole di lui si ritiri senza lottare ogni volta che si incontrino». (ivi pp.81)
** Ad esplicare al meglio i meccanismi auto-inibitori dell’aggressività è il concetto del «moto ri-diretto» o «re-direction activity» (ivi pp.96). In pratica l’essere accorto, si trattiene e va a sfogarsi con qualcosa di distruttibile, Lorenz afferma: «la ri-direzione dell’attacco è l’espediente più geniale che l’evoluzione abbia inventato per costringere l’aggressività su binari innocui». (ivi pp.99).
*** «Atto che pone termine ad una sequenza comportamentale. Reazione che riduce l’intensità dell’istigazione in modo che venga diminuita anche la tendenza a produrre una determinata sequenza comportamentale». (Dollard, 1967. pp. 17-18).
**** Con metodo classico di studiare gli animali, ci si riferisce al metodo comportamentista (ad esempio quello di Skinner o di Pavlov), che consisteva nel fare esperimenti sugli animali al chiuso, trattandoli come semplici cavie da laboratorio.

 

Per approfondimenti:
_Agostino (2001) Natura del bene. Milano: Bompiani.
_De Caro, Mario (2005) La mente e la natura. Roma: Fazi
_Dollard, John (2007). Frustrazione e aggressività. Milano: RCS.
_Goethe, Johann, Wolfgang (2005). Faust e Urfaust (XII edizione ed.). (tr. it. Giovanni Vittorio Amoretti). Torino: Feltrinelli
_Hobbes, Thomas (2008). Leviatano. Roma-Bari: Laterza
_Hume, David (2014). Dialoghi sulla religione naturale. Milano: Bur
_Kant, Immanuel (2010) La religione entro i limiti della sola ragione. Roma-Bari: Laterza.
_Leibniz (1993). Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male. Milano: Bur.
_Lorenz, Konrad (2008). L’aggressività. Milano: il Saggiatore
_Paternoster, Alfredo (2002). Introduzione alla filosofia della mente. Roma-Bari: Laterza
_Schopenhauer, Arthur (2011). Il fondamento della morale. Roma-Bari: Laterza
_Tommaso (2007). Il male. Milano: Bompiani.

 

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