20 Dic Robinù: realtà di violenza e desiderio
di Maurilio Ginex del 20/12/2016
“Robinù” è il titolo dell’ultimo docu-film di Michele Santoro. Un insieme di storie che fanno da cornice a un ambiente specifico, quello della Napoli violenta, macchiata dall’ombra di un’identità criminale irreversibile, che corrode tutto fino a toccare anche le tradizioni di un popolo, quest’ultime riposte nello sfondo, in secondo piano. Un ambiente, questo, intriso di un magmatico caos generato da coscienze, forgiate su un unico grande valore, il potere: un valore che muove tutte le intenzionalità, che viene concepito come la legittimazione del singolo individuo, il quale conduce un’unica attività, quella di comandare, di prevaricare sull’altro.
Robinù è la storia di quei ragazzini che fanno capo alle “paranze dei bambini”, quelle raccontate dallo scrittore Roberto Saviano. Gruppi di baby gang di età compresa tra i 17 e i 24 anni, in cui non c’è paura, non c’è timore, non c’è logica che possa guidare le azioni. Ragazzini che tengono una pistola in mano e non hanno timore di utilizzarla. Dunque non incontrerebbero nessun problema etico, per i loro 17 anni, che li vedono impugnare la prima arma e successivamente a ridosso dei 20 inoltrati divengono già dei killer professionisti. Forse forse alle volte non arrivano ai trenta e che già, in questi pochi anni, della galera ne hanno già una lunga esperienza.
Il lavoro di Santoro è un lavoro analitico che va al contrario, attraverso l’eredità di un realismo conturbante nel sviluppare la storia: parte dalle famiglie toccate dalle disgrazie e dalle conseguenze derivate dalla malavita dei figli e arriva fino al carcere dove gli intervistati – chi racconta e parla – sono i diretti interessati, quei ragazzini. L’autore evidenzia il carattere antropologico di questa baby criminalità senza far luce su chi sta al di sopra di un determinato gruppo, di un determinato capo “paranza”, che nel film diventa l’oggetto dell’intreccio che mette in risalto la mentalità precocemente malsana dei ragazzini. Quel capo paranza Emanuele Sibillo aveva 19 anni quando venne atterrato da quei colpi di pistola, giovane età ma allo stesso tempo già latitante e ricercato in mezza Europa. Napoli è la piazza di spaccio più grande del Continente. Oggetto dell’intreccio che mette in risalto la mentalità, perché?
Emanuele viene ucciso ed era proprio lui a gestire tra spaccio e illegalità i ragazzini, era lui che manteneva l’ordine e conosceva tutti. Lui rappresentava quella microfisica del potere che agiva per ordine indotto da parte di una macrofisica superiore mai menzionata dall’autore, ma che di fondo da spettatore della pellicola se ne avverte la presenza. Emanuele viene ucciso proprio per quel concetto su riportato che muove le coscienze, il potere. Quello di “paranza” è un concetto che Saviano conia per dare identità a una criminalità minorile particolarmente efferata, ma il sistema di fondo è sempre lo stesso. Un capo paga bene e i suoi seguaci eseguono il lavoro in vista di quel buon pagamento, questo, un qualcosa che può tenere a bada un ipotetico moto rivoltoso da parte è lì incaricato di eseguire gli ordini. Ma quando viene a mancare ciò che un seguace richiede, ovvero giusta paga, salire di grado e rispetto agli occhi del proprio capo , cosa succede? Il caos.
Emanuele è stato ucciso da questo caos, dalla volontà di chi, amante del kalashnikov e dei 33 colpi che riporta all’interno del caricatore, ha voluto mettere fine alla sua vita e ha voluto prendersi tutto il potere che fino a poco prima aveva soltanto subito. La storia di un malcontento che genera rivolta e che viene evidenziato attraverso quel sentimento di fondo che sta alla base delle coscienze di questi ragazzini. La voglia di prendersi tutto, di avere il cellulare di ultima generazione, avere le donne, di provare droghe di ogni tipo, di avere le cose più costose per far risiedere e ristagnare anche nella sola immagine un potere prevaricatore che si basa sul concetto basso del “io sono meglio di te”, “io ti sto di sopra”, tutto un mondo , quello di “Robinù”, costruito su quella che Jacques Lacan definiva “mancanza di essere”.
Questa mancanza che diventa una forza che genera il desiderio di ciò che non si ha. Nei canoni della normalità – se qualcosa si possiede e non la si può realmente avere – si acquisisce consapevolezza e si accetta il fatto di non poterla possedere: questo è sintomo di una ragione di fondo che si mischia con una coscienza infelice della questione. In questo frangente si riscontra la mutazione antropologica della borgata dell’oggi e della gente che la abita. Non è più il sottoproletariato di Pasolini in cui il Vittorio di “Accattone” alludeva a una vita fatta di sopravvivenza e in cui si intessevano i rapporti con la malavita per riuscire ad andare avanti e riuscire – dunque – a sopravvivere, a mangiare. Non è più una realtà in cui un concetto di “fame” come lo analizza Knut Hamsun trova affinità con il concetto di “tirare avanti”.
D’accordo che in Pasolini già avevamo assistito a questa mutazione antropologica determinata dal fatto che prende piede violentemente un centralismo consumistico, che inficia in maniera determinante la purezza archetipica che lui riscontrava nella borgata dell’Idroscalo di Roma lontana – molto lontana – dal centro, ma quella di “Robinù” è una realtà generata da un sentimento di mancanza che genera pulsioni verso qualcosa che fondamentalmente, nelle condizioni evidenziate e con un lavoro onesto e faticoso, non potrebbe essere raggiunto.
Non è più una questione di sopravvivenza, qui l’attenzione si disloca sull’importanza generata dai beni materiali, unica fonte di incontro con il sé, direbbe Ernst Bloch. Ragazzini che con una mano brandiscono l’arma e con l’altra la droga per lo spaccio, anime che abitano le piazze e fanno girare denaro su denaro. Non possono che bramare tutta quella liquidità e vedere in essa l’unica dimensione possibile attraverso cui giungere ai propri fini, nell’immediato, subito, senza aspettare, allontanandosi dalla possibilità di pensare che quella, forse, non è la reale ottica di vita per cui si adempie alla propria sussistenza. Odio su odio, violenza su violenza, qui a cadere esanime non sono soltanto i corpi di individui appartenenti alle varie paranze, qui a cadere è proprio il senso autentico della vita. Ragazzini che impiegano anni a crescere, ma che a sparare in faccia a un altro individuo non ci pensano un secondo, perché basta un cattivo sguardo, uno sgarbo, un gesto inconsueto, una mancanza di rispetto e quel grilletto viene premuto. Sono cani sciolti che non conoscono compromessi e che in un concezione della vita malsana non temono il rischio di nulla, conta solo il comandare, la bella vita fatta di sballi e soldi alle mani per comprarsi ogni cosa che dà il segno dell’essere riconosciuti come pericolosi, dunque da temere.
I “robinù” sono il prodotto di un centralismo consumistico portato all’eccesso. I bisogni secondari, i lussi, diventano i bisogni primari, perché a parlare sono quelle immagini che si sovrappongono nella parte dell’anima che Freud chiama “Es” – ovvero – dove risiedono gli oggetti delle proprie pulsioni, dei propri desideri. Per una psicanalisi dei soggetti in questione il tema di fondo è colmare il vuoto di quei desideri, perché la malavita si poggia proprio su quel concetto di mancanza di essere, che genera dunque, una violenza che muove l’azione dell’accaparrarsi tutto ciò che non si può possedere. All’insegna di una visione così distorta della vita l’aver cura del proprio “kalash”, così lo chiama un intervistato da Santoro parlando del suo kalashnikov, è aver cura di un qualcosa che quando lo tieni in mano ti fa sentire il padrone.
Conta solo questo, sapere che la gente ha paura di te e sapere che tu spari perché a comandare sei solo tu. Questa è l’ottica di fondo che caratterizza antropologicamente quei ragazzini delle paranze. L’ostinazione nel credere che ammazzare per uno sgarbo e fare denaro impiegando il tempo nelle piazze di spaccio fa capo a una mentalità che non trova nessun argine in grado di poter causare un cambiamento di visione della vita. La cosa che risulta assurda per una mente razionale e arresa di fronte a uno scempio tale è la coscienza di questi ragazzini che vedono in ciò che fanno, la più alta forma di autodeterminazione e che non gli consente una visione della vita diversa, proprio perché non la percepiscono come qualcosa da accettare coercitivamente e dunque dover trovare un modo attraverso il quale fuoriuscirne , ma al contrario, hanno del tutto una coscienza felice, perché portati – attraverso plagio mentale indotto inconsapevolmente – a pensare che tutto ciò sia giusto, come lo sparare in faccia a qualcuno per una parola di troppo, uno sgarbo subito. Proprio da qui subentra quel concetto, di visione distorta della vita.
La realtà di borgata, quella di “Robinù”, è una realtà unidimensionale in cui si deve essere bravi a scegliere e se anche non scegli , o meglio, ti metti in una condizione in cui cerchi di razionalizzare che non devi per forza scegliere – ma soltanto seguire la normale onestà – devi prendere in considerazione che la prepotenza di un sistema – radicato sino alle radici di quella terra – deciderà sul tuo essere.
Per approfondimenti:
_Roberto Saviano, La paranza dei bambini – Editore Feltrinelli
_Michele Santoro, Robinù – Film Documentario del
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