Neorealismo ed Esistenzialismo

di Maurilio Ginex del 25/11/2016

Quale potrebbe essere il punto d’incontro tra una corrente cinematografica come quella del Neorealismo e una corrente filosofica come quella dell’esistenzialismo? Il dopoguerra è il campo in cui si dipanano questi due universi di rappresentazione. Tutto è crollato e all’orizzonte non vi è che un mondo inerte di fronte ad ogni forma di ripresa. Periodo in cui il concetto di fulgido non esiste e non trova più casa, una dimensione costituita dal tragico che abita e si arena nelle vite dei singoli individui.

Uno spirito generale in cui diventa elemento caratterizzante quella disperazione che soltanto un’anarchica , folle e implacabile logica criminale come quella della seconda guerra mondiale ha potuto generare. Una realtà costituita da quelle che Jaspers definisce “situazioni limite”, come la sofferenza, il dolore, la morte, il passare del tempo e in cui le vite degli individui si dipanano all’interno di un generale senso di precarietà misto a una dispersione interiore che porta l’uomo al brancolare nel buio.
Il Neorealismo incarna coerentemente lo spirito del tempo. Roberto Rossellini , probabilmente il maestro del neorealismo, nella creazione della sua a dir poco perfetta trilogia che dedica alla guerra, rappresenta alla lettera quel mondo. Un mondo a metà tra la follia psicopatica e violenta della guerra che genera odio su odio e la disperazione che fa da fondamento all’esistenza dell’uomo dell’immediato dopo guerra. Da Rossellini, a Vittorio De Sica, fino a giungere a Luchino Visconti, passando per tutto questo cinema – tragicamente neorealista – vi si scorge un unico legame di fondo, che accomuna tutti gli autori che ne hanno fatto parte. Si parla di una forza che muove i vari personaggi di queste storie , personaggi come Pina di “Roma Città Aperta” , come Cesira de “La ciociara”, come Antonio Ricci dei “Ladri di biciclette”, come il piccolo Edmund della “Germania Anno Zero”, tutte figure che rappresentano e incarnano il destino di chi è vittima di un assurdo incondizionato che si slega da ogni morale e che si scaraventa sugli individui. Alla disperazione viene fornita un’identità filmica che non si sintetizza soltanto su quei primi piani caratteristici di questa corrente ma viene sintetizzato nella rappresentazione di una continua ineluttabilità di condizioni che al proprio dramma non riescono a porre mai una fine. La realtà del Neorealismo, vera vita vissuta, risulta un terreno fertile per la pragmatizzazione di quella che fu la filosofia dell’esistenza.
L’esistenzialismo con la sua “passione” per l’essere e la comprensione del suo significato, non può che essere una pratica forma analitica della realtà in questione, come la chiama Heidegger “un’ermeneutica della fatticità”. Un occhio critico sull’esistenza che scorge fino all’essenza le trame dell’essere. In storie come quelle del Neorealismo vi è messo in primo piano quel rapporto, su cui si dipana tutta la filosofia esistenziale e in particolare ciò che si avvicina al concetto di Assurdo, tra l’infinitezza delle aspirazioni intenzionali dell’uomo e la finitezza, soprattutto nel dopoguerra, delle possibilità che la realtà offre ad esso. Heidegger, per esempio vede nella realtà non un qualcosa di fisso e precostituito, ma al contrario qualcosa che sia il prodotto delle scelte dell’individuo che farà come conseguenza delle possibilità che ha di giungere al proprio obiettivo. Quasi una forma di esistenzialismo più “ottimista” che apre una via d’uscita dall’ineluttabilità di determinate condizioni esistenziali e apre determinate possibilità di adempiere alla propria rivolta metafisica. Quest’ultima porterà nuovamente al brandire energicamente la cura del sé. Cioè il filosofo tedesco mira a un uomo che è stato gettato nel mondo e dove è lui stesso a progettare senza essere manipolato da situazioni date da una determinata condizione storica. Una via d’uscita che i neorealisti probabilmente non prendono in considerazione, proprio perchè il caratterizzante “elementare” del loro cinema, e del loro tempo in cui questo cinema si sviluppa, è l’ineluttabilità dell’essere. Un’impossibilità di fondo di riuscire a cambiare situazioni date. Una negatività che alberga lo spirito del tempo. Proprio in questo realismo crudo si vede il tentativo di denuncia della crisi non soltanto materiale che genera la povertà e disperazione più assoluta dei personaggi , ma anche e soprattutto una povertà spirituale che condiziona fino alla fine le loro vite.
Emblematica rappresentazione di questa forma di assurdità che genera quella che Kierkegaard definisce come “malattia mortale”, una forma di disperazione che ti uccide internamente fino a dominare le tue azioni, è il destino che in “Germania Anno Zero” Rossellini scrive per il personaggio di Edmund.

Roberto Rossellini: Germania, Anno Zero del 1948.

Questo un innocente ragazzino che nel camminare, disperso, tra le macerie della sua Berlino bombardata, trova come unica via d’uscita il suicidio. Ne “Il Mito di Sisifo” Camus affronta il tema del suicidio e definisce il concetto di uccidersi come una forma di confessione, una modalità per dire ciò che stando in vita non puoi esprimere proprio perché la disperazione voce non ha. Ma ciò che stimola più la coscienza è che Rossellini non fa suicidare un individuo qualunque, ma fa suicidare un ragazzino al quale fa prendere consapevolezza della disperazione spirituale di un mondo e gli delega nella sua inconsapevolezza l’enorme peso di un gesto drammatico e contemporaneamente assurdo. Quelle possibilità che Heidegger scorge nella realtà non precostituita che potrebbero essere un leitmotiv per autodeterminarsi. Ciò non esiste nell’universo neorealista dove l’assurdo è generato dal divario quantitativo che vi è tra capacità e possibilità. Il personaggio di Edmund sintetizza l’approdo finale di questa decadenza dell’essere in cui la vita diventa inconsistente anche ad un adolescente di fronte alla totalità del negativo. Profonde e toccanti sono le parole di Rossellini nel cartello introduttivo di “Germania Anno Zero”:
Quando le ideologie si discostano dalle leggi eterne della morale e della pietà cristiana, che sono alla base della vita degli uomini, finiscono per diventare criminale follia. Persino la prudenza dell’infanzia ne viene contaminata e trascinata da un orrendo delitto ad un altro non meno grave, nel quale, con la ingenuità propria dell’innocenza, crede di trovare una liberazione dalla colpa.
Parole amare, ma che rendono lo spirito che aleggia in quei tempi. Con queste parole può perfettamente essere compreso l’apparentemente azzardato raffronto fatto tra la teoria esistenzialista che parte dalla ricerca dell’essere nella sua totalità e il cinema neorealista che rappresenta un’esistenza che ha smarrito la propria identità. Il dopoguerra ha alimentato il senso della negatività dell’essere, paralizzato nel suo divenire dalla finitezza delle possibilità umane e la filosofia dell’esistenza parte da una condizione esistenziale come questa, per poi adempiere al tentativo di modifica dell’ineluttabile.

 

Per approfondimenti:

_Heidegger, Essere e tempo – Edizioni Longanesi

_Kierkegaaed, malattia mortale – Edizioni Bompiani 
_Camus, il mito di Sisifo – Edizioni Bompiani 
_Tassinari e Fornero, filosofie del Novecento – Edizioni Mondadori

 

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