Lo Stato Islamico: radici, business, petrolio e arte

di Sebastiano Caputo del 20/11/2016

Mentre la Grande Guerra soffocava l’Europa, le diplomazie delle grandi potenze mondiali si spartivano il Vicino e Medio Oriente. In un risiko gigantesco quanto tragico si delegavano territori, si tracciavano nuovi confini, si cambiavano nomi, si assoggettavano colonie smembrando imperi e stati nemici. Tra questi divertissement geopolitici risalta, per la sua importanza nelle fonti future del mondo arabo-musulmano gli accordi Sykes-Picot nel marzo 1916, i quali mutilarono quella che veniva chiamata la “Grande Siria”, vale a dire un territorio vasto confinante con il mar Mediterraneo a Ovest, con il deserto arabico ad Est, con l’Egitto a Sud e con l’Anatolia a Nord.

In questa immagine d’epoca viene rappresentata la città di Damasco in Siria, nel primo decennio del 1900.

Dato per scontato il trionfo dell’Intesa sul debole e decantato Impero Ottomano, Francia e Regno Unito si accordarono, insieme alla Russia, per spartirlo in tre zone di influenza. In segreto venne dunque deciso il destino di milioni di arabi, desiderosi di affrancarsi dall’odiato dominio turco e unirsi in un unico regno indipendente (idea foraggiata in un primo momento dall’Intesa in chiave anti-ottomana e poi abbandonata una volta crollato il sultanato di Istanbul): Siria, Libano, la parte superiore dell’Irak e il confine meridionale turco alla Francia; tre quarti dell’Iraq, la Giordania e la Palestina all’Inghilterra.
Del famoso regno arabo indipendente nessuna traccia. E come se non bastasse, con la successiva Dichiarazione di Balfour voluta da Londra, veniva dato il via all’insediamento sionista in Palestina, che culminò nel 1948 con la creazione dello Stato di Israele. Gli accordi Sykes-Picot non presero minimamente in considerazione le aspirazioni locali, ma soprattutto la diversità etnica di quei luoghi così complessi. Così Londra e Parigi, che già si erano spartite l’Africa e l’Estremo Oriente, entrarono in possesso di questi vasti e importantissimi territori, ricchi di risorse energetiche, vere cerniere strategiche tra Asia e Europa, Mediterraneo e Oceano Indiano. Ai tavoli di versailles, una volta finita la guerra, lo sbandierato principio di autodeterminazione dei popoli, non fu applicato per le grandi potenze. Con lo strumento fittizio dei mandati la Società delle Nazioni avallava l’asservimento coloniale sancito dagli accordi del 1916.
Dovrà venire un’altra guerra mondiale per affrancare questi popoli dal dominio economico-militare anglo-francese, definitivamente esautorato con le grandi nazionalizzazioni petrolifere degli anni Sessanta, quando il socialismo arabo sembrava finalmente permettere l’unione, nel segno della laicità e della giustizia sociale, del proprio mondo, oggi nuovamente minacciato dai gruppi terroristici che giocano la loro partita proprio su questo mosaico etnico-religioso costruito a tavolino secoli fa.
Prima ancora di capire cos’è lo Stato Islamico, com’è nato e come si finanzia, è necessario approfondire la corrente religiosa che c’è dietro un gruppo che usa il terrorismo in nome dell’Islam. Ecco che all’origine del fondamentalismo troviamo il Wahabismo, un movimento di riforma religiosa nato per riaffermare quello che secondo i suoi sostenitori sarebbero “i principi primi contenuti nel Corano” (una sorta di protestantesimo all’interno del Cristianesimo che ritorna appunto al Vecchio Testamento abbandonando il Nuovo). Prende nome dal suo fondatore Muhammad ibn Abd al Wahhab (1703-1792) un predicatore nato nella città di Uyaynah nel Najd, una vasta regione della penisola arabica (odierna Arabia Saudita) che allora era suddivisa in diverse aree di influenza sotto il protettorato degli Ottomani (era il sultano di Istanbul, che si proclamava “custode dei luoghi santi“, come le due città Mecca e Medina). La parte orientale era controllata dagli shaykh dei Bani Khalid e del Kuwait,  mentre nel Sud della Penisola (Yemen, Oman) e al di là delle distese desertiche del Rub al Khali, dominavano imam e sultani prevalentemente di fede scita. L’Arabia Centrale (Nejd) invece era caratterizzata dalla presenza di emirati in rapporto di alleanza o conflitto con le tribù beduine, o con le loro fazioni.
A dieci anni Muhammad ibn Abd al Wahhab aveva memorizzato tutto il Corano, e già da adolescente aveva compiuto lo hajj il pellegrinaggio canonico a La Mecca che ogni fedele musulmano che ne abbia le possibilità fisiche ed economiche deve fare almeno una volta nella vita. Il più noto dei suoi 15 trattati si chiama Kitab al Tawhid, il Libro dell’Unicità Divina, e sul quale si fonda l’intera dottrina religiosa. Dopo anni e anni di spostamenti nella regione, si recò ad al-Dyriah, vicino Riyadh, dove incontrò Muhammad ibn Saud, il fondatore della Casa reale dei Saud, quella che unificherà la penisola e la governa ancora oggi. Da lì la religione diventò uno strumento di espansione e dominazione. A partire da allora l’emirato saudita conquistò velocemente i villaggi limitrofri sia grazie alla forza militare che al sempre crescente numero di proseliti che affluivano nella capitale al richiamo del Verbo wahabita.
Muhammad ibn Saud morì nel 1765 e sotto suo figlio Abd al-Aziz il potere e la ricchezza del clan dei Saud crebbe notevolmente. Nel giro di un secolo e mezzo, pur tra alterne vicende, ed essendo stato sul punto di essere completamente cancellato dagli ottomani nella prima metà dell’ottocento, l’emirato saudita (che dal 1824 aveva per capitale Ryadh), si espanse progressivamente. Nella seconda metà del XIX secolo, tuttavia, indebolitasi in seguito a lotte interne, l’emiro lasciato il potere fu esiliato in Kuwait, per poi tornare definitivamente da trionfatore nel 1902.
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Da sinistra a destra: Muhammad ibn Abd al-Wahhab, Abd al-Aziz, Abu Bakr al Baghdadi, Ayman al-Zawahiri, Osama Bin Laden.

Nel 1913 Abd al-Aziz si lanciò alla riconquista dei territori che avevano fatto parte agli inizi del XIX secolo dell’Emirato Saudita quando era all’apice della sia potenza. Egli riuscì ad espellere gli ottomani e a conquistare La Mecca, Medina e Jedda tra il 1914 e il 1926. Il Wahabismo, da movimento di rivoluzione jihadista e di purificazione teologica, divenne un movimento di conservazione sociale, politica e ideologica nei confronti della famiglia reale saudita. E con la scoperta del petrolio – come riporta lo studioso Gilles Kepel – gli obiettivi sauditi si incentrarono nel “diffondere e divulgare il Wahabismo all’interno del mondo musulmano“, riducendo quindi la “moltitudine di voci all’interno della religione” ad unico credo. Miliardi di dollari furono investiti e lo sono tuttora – in questa manifestazione cultura-religiosa del soft power. Il Daesh infatti appare come un prodotto del Wahabismo, tanto che ad al Bab, nel Governatorato di Aleppo, è stato distribuito recentemente ai miliziani dalle autorità dello Stato Islamico ed è l’unico libro libro scritto dal suo fondatore. E non è un caso che il primo numero di Dabiq – la rivista dell’Isis apparsa nel luglio del 2014 che si chiama come il luogo nel nord della Siria dove secondo i precetti della Sunna dovrà svolgersi la “battaglia finale” – aveva come titolo “The return of Khilafah” (il ritorno del Califfato). Oggi l’Arabia Saudita, il più oscurantista degli Stati islamici, è la roccaforte del sunnismo ma anche la nazione musulmana con il più antico patto con gli Stati Uniti, firmato tra Ibn Saud e Roosevelt nel 1945 , pochi giorni dopo Yalta.
Vinto il confronto con l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno come obiettivo di conservare il loro ruolo di superpotenza globale impedendo che qualsiasi potenza ostile domini una regione – l’Europa occidentale, l’Asia orientale, il territorio dell’ex Unione Sovietica e l’Asia sud occidentale – le cui risorse sarebbero sufficienti a generare un concorrente pari. In questo senso il Pentagono e la Casa Bianca hanno riorientato dal 1991 la propria strategia con la complicità delle cancellerie Europee che rientrano nell’Alleanza Atlantica (Nato). Da allora sono stati frammentati e demoliti con la guerra, uno dopo l’altro, gli Stati ritenuti di ostacolo al piano di dominio globale – Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina e altri – mentre altri ancora (tra cui l’Iran) sono nel mirino. Queste guerre, che hanno mietuto milioni di vittime, hanno disgregato intere società, creando una enorme massa di disperati, la cui frustrazione e ribellione sfociano da un lato in reale resistenza, ma dall’altra vengono recuperati dalle potenze occidentali e strumentalizzati per tutelare i propri interessi. Non è un caso che in alcune aree si combattono i gruppi terroristici e in altri ci si allea tacitamente. Come in Siria, dove a combattere il governo di Assad ci sono Jabhat Al Nusra (Fronte della Vittoria) e lo Stato Islamico (che noi chiamiamo Isis, mente i suoi nemici nel mondo arabo-musulmano e persiano lo chiamano Daesh, acronimo arabo di Al Dawla al Lslamiyya fi’Iraqwa l-Sham ovvero “Stato islamico dell’Iraq e del Levante“. Tuttavia vale la pena approfondire il secondo, sicuramente più strutturato e minaccioso, e in qualche modo dominante nella galassia anti-governativa.
L’Isis, che a differenza di Al Nusra ha rinnegato la sua matrice qaedista nonostante inizialmente si chiamasse Aqi (al Qaeda in Iraq), nasce bene armato e ben foraggiato dal punto di vista dei finanziamenti per opera di Abu Musab al Zarqawi, ucciso poi nel 2006 dai bombardamenti americani. Così la leadership passa nelle mani di Abu Omar al baghdadi e – dopo la sua morte, nel 2010 – ad Abu Bakr al Baghdadi (il suo vero nome è Awwad Ibrahim Ali al-Badri al-Sammarrai), un uomo misteriosamente liberato nel 2009 dalle carceri militari statunitensi in Iraq (Camp Bucca) dove era rinchiuso dal 2004 con l’accusa di terrorismo. Nel 2013, dopo un periodo di diatribe interne, il gruppo rinasce sotto la sigla Isis, vedendo nel conflitto siriano la possibilità di espandersi in quella parte del Levante che rientra nei confini del super Stato trans-nazionale del Califfato. Nel febbraio del 2014 Al Baghdadi rompe di fatto con al Zawahiri, attuale leader di Al Qaeda ed erede di Osama Bin Laden, il quale invece voleva che in Siria operasse Jabhat Al Nusra, e proclama il 29 giugno dello stesso anno lo Stato Islamico con capitale Raqqa.

Due mappe della situazione negli ultimi anni: a sinistra l’espansione dello Stato islamico in Siria, a destra l’espansione dello Stato islamico nel Medio-Oriente.

Sono tante le cellule che immediatamente di uniscono al Califfato – si contano ex affiliati di al Qaeda, ex baathisti e militari dell’era Saddam – tanto che in poco tempo questo si espande fino a Mosul dove fissa il confine. Il segreto del consenso è nelle sue efficaci tecniche di propaganda, simili a quelle utilizzate nelle strutture occidentali. La rivista “Dabiq” assomiglia al “Time” come impaginazione, i video pubblicati sui loro canali sono in altissima definizione e montati con tecniche raffinate. Sono tante e dislocate in tutto il mondo le cellule connesse a questa organizzazione che all’improvviso è riuscita a ribaltare il rapporto di forza con Al Qaeda. Ma c’è un elemento ancora più interessante e tutto da analizzare. Segnalate anonimamente sui mass media siriani, circolano sul web, foto che ritraggono il repubblicano McCain insieme a Mohammad Nour, portavoce di Jabhat al Nusra. In un’altra invece, il senatore americano è ritratto in una folta riunione, in cui vengono immortalati Salem Idris, capo del Free Syrian Army – i cosidetti “ribelli moderati” e lo stesso Al Baghdadi, nella foto senza barba. Difficile dire se fosse lui veramente, ma è anche vero che gli Stati Uniti appoggiano i rivoltosi – anche di matrice terroristica – dai tempi dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan (vedi con i “mujahidin”).

Nella foto di sinsistra il senatore John Sidney McCain III in una riunione insieme al terrorista Abou Bakr Al Baghdadi. Nella foto di destra il senatore americano vicino al neo-nazista Oleh Tyahnybok.

Sul leader dell’Isis, la Casa Bianca ha messo una taglia da 10 milioni di dollari e lo stesso Califfato ha messo McCain nella losta nera dei nemici, eppure non è la prima volta che il senatore repubblicano si destreggia in questi contesti. Dal 1993 è presidente dell’IRI – international Repubblican Institute, specie di ramo repubblicano della NED – un’agenzia intergovernativa, ufficialmente una Ong, creata da Ronald Reagan per estendere le attività della CIA – in collegamento coi servizi di Gran Bretagna, Canada, Australia – e “diffondere la democrazia” nel mondo. Già altre volte infatti è stato fotografato con i “ribelli” prima delle insurrezioni o colpi di Stato più o meno riusciti: in Venezuela, Haiti, kenya, per non dire alle “rivoluzioni colorate” e primavere arabe, e di recente in Ucraina.
La capitale del terrore dello Stato islamico è Raqqa, antica città ellenistica, romana e bizantina. Oggi è governata dalla frusta del Califfato di Al Baghdadi. L’urbe è una città di duecento mila abitanti, situata a 160 chilometri a Est di Aleppo e fu conquistata il 6 marzo del 2013 dai miliziani dell’Esercito Libero Siriano (Esl) che in un’offensiva coordinata con i gruppi jihadisti e salafiti di Jabhat al Nusra e Ahrar ash Sham, riuscirono a sconfiggere l’esercito regolare di Assad. Ma poco dopo ebbero la meglio i secondi che scacciarono i primi. Appena dopo la cacciata dell’Esl i salafiti affiliati ad Al Qaeda, pensavano di avere in pugno la situazione, quando nel Gennaio 2014 cadde sotto l’occupazione dei combattenti dello Stato Islamico.
Di Raqqa si sa poco, i documenti che girano sono pochi. Dal poco che è uscito fuori, la città traspare un luogo soffocante che si regge sulla Hisba, la polizia religiosa, ma anche su un Welfare primitivo che distribuisce gratuitamente cibo e bevande alla popolazione. Quest’ultimo finanziato dalla zakat, la tassa religiosa del 10% sui redditi, ma soprattutto dai saccheggi, le estorsioni, i rapimenti, la vendita del petrolio, delle armi e delle opere d’arte.
In un video girato nel centro storico e pubblicato dal quotidiano inglese Telegraph si intravede la quotidianità della capitale del Terrore. La Naem plaza, in arabo “paradiso“, prima nucleo di un luogo pulsante e vivo, ora non è nient’altro che rovina spettrale decorata da bandiere nere. Le strade sono semi-deserte. La gente sembra barricata dentro casa. Eppure da altri documentari pubblicitari dal Wall Street Journal che raccolgono testimonianze,  l’atmosfera sembra diversa. Non gioiosa, ma vivace. Al-Baghdadi e i suoi, in sostanza, non mirano solo a diffondere il terrore tra la popolazione, ma desiderano fondare il loro Stato moderno sul consenso. Eppure il confine tra consenso e sottomissione è sottile. Le prime imposizioni si concretizzano sotto il velo della religione che da sincera fede è diventata un vero e proprio strumento di dominazione. Sfogliando i numeri della rivista governativa Dabiq vediamo come le autorità del Califfato avrebbero istituito tutta una serie di strutture nell’interesse del bene comune. Tuttavia accanto a questi progetti volti a migliorare la vita della popolazione, la propaganda del Califfato è martellante. Ad Esempio: si può leggere in città lo svolgimento della dawa, una sorta di attività pubblica per chiamare “l’Islam”, intrattenendo la popolazione con la lettura del Corano e su corsi di memorizzazione delle Sure con l’aggiunta di eventi-divulgativi rivolti soprattutto alle donne. Le esecuzioni in pubblico sono all’ordine del giorno e servono principalmente a terrorizzare la popolazione. La polizia religiosa, Hisba, inizia a pattugliare le strade con l’incarico di segnalare ogni violazione: da come si indossa uno chador (indumento tradizionale iraniano simile ad una mantella), all’entusiasmo nelle preghiere quotidiane.

Nella foto di sinistra viene mostrato un componente della polizia locale dell’Hisba. Nella foto di destra alcune miliziane di al Khansa.

Le pattuglie femminili, al Khansa, come si può vedere nelle immagini di Dabiq affiancano la polizia locale che gestisce le detenzioni degli arrestati nelle prigioni dello stato Islamico. Ad Hisba tocca il compito di monitorare la presenza di minoranze non musulmane, nel caso si tratti di yazidi, considerati “pagani”, vengono uccisi o cacciati e spesso schiavizzati. I cristiani, invece, hanno l’obbligo di non professare pubblicamente la propria fede e devono pagare un imposta, chiamata “tassa di protezione” o “jizya”. La brigata della polizia religiosa si occupa dell’arresto degli uomini, mentre quella femminile, composta al 90% da straniere, delle donne, che vengono catturate e obbligate ad unirsi in matrimoni combinati.  I metodi di tortura maggiormente diffusi sono le percosse, eseguite con generatori di corrente, cavi solidi e bastoni per obbligare i detenuti a piegarsi o a restare in posizioni scomode. Nelle scuole sono abolite l’arte, la musica e la filosofia ed è stato cancellato ogni riferimento alle nazioni Siria o Iraq. Inoltre nessun contatto misto può esservi tra uomini e donne con alcune interruzioni nei momenti dedicati alla preghiera. Le ordinanze del Califfo vengono emanate dall’editto del Dwan della Conoscenza, il ministero dell’educazione del Califfato. La volontà di eliminare ogni riferimento agli Stati post-coloniali deriva dal desiderio di sedimentare l’idea immaginario comune, che il Califfato è sempre esistito ed è destinato a durare.
La Siria possiede un territorio ricco di petrolio e gas naturale tanto che prima del conflitto era uno dei più grandi produttori di energia del Levante. I suoi 130 pozzi di oro nero, dislocati nella parte nord-est del Paese e i giacimenti di gas per 284 miliardi di metri cubi, rendeva possibile esportare il greggio seppur con qualche flessione rispetto agli anni precedenti a causa della crescita della domanda interna. Oltre che all’ampliamento della Arab Gas Pipeline, che porta gas dall’Egitto alla Turchia passando da Giordania, Libano e Siria, il governo di Damasco aveva stretto accordi con Iran e Iraq per la costruzione di gasdotti e oleodotti con origine nell’Azerbaijan, nel Caucaso meridionale, il che avrebbe fatto della Siria il più importante corridoio energetico della regione.
Peccato però che da quando i miliziani dello Stato Islamico si sono impossessati dell’area, facendo di Raqqa la sua capitale, le cose sono cambiate radicalmente. “L’Isis ha preso il controllo della maggior parte delle infrastrutture petrolifere della Siria” sostiene Yevgeny Satanovski, presidente dell’Istituto di Medio Oriente della Russia, citato da canale Russia1. Nei documenti ottenuti recentemente e rivendicati dal Financial Times il Califfato è diventato il produttore monopolista di un’azienda gestita perfettamente grazie al contributo di ingegneri, esperti manager provenienti anche dall’Occidente. Secondo il FT la compagnia petrolifera dell’Isis è infatti capace di produrre tra i 34 mila e i 40 mila barili di greggio ogni giorno venduti all’ingrosso per cifre che vanno dai 20 ai 40 dollari al barile per un reddito percepito di almeno 1,5 milioni di dollari al giorno. Mentre Al Qaeda, la rete terroristica globale, dipendeva dalle donazioni di sponsor stranieri, l’Isis è riuscito a diventare autosufficiente sul piano economico. Pur non avendo la capacità di esportare, il suo Pil riesce a crescere grazie all’enorme mercato interno siro-iracheno.
I maggiori clienti sarebbero proprio i ribelli di Jabhat Al Nusra che combattono il governo di Damasco principalmente nella parte Ovest, nell’asse che collega Aleppo e Dara. Questo è uno dei tanti motivi che fa di loro una organizzazione subordinata al Califfato e non dei “ribelli democratici” slegati dal terrorismo internazionale. La maggior parte dei siti petroliferi e delle raffinerie controllate dallo Stato Islamico si trovano Iraq (Ajil, Allas, Qayyara ecc..), eppure anche quelle siriane garantiscono un business da centinaia di migliaia di dollari. Le principali strutture si trovano a Deir al Zor, al Omar e Al Jabsah, in provincia di Hassakeh. Da quelle parti le aree sono sorvegliate minuziosamente da Amniyat, la polizia segreta e dai miliziani che controllano i camion commerciali che si riforniscono nelle stazioni di pompaggio.
Pertanto, secondo il Financial Times, questa economia dell’oro nero non può durare per sempre. Da un lato i raid dell’aviazione russa e quelli della Coalizione internazionale guidata da Washington seguono una strategia volta a colpire questi siti, dall’altro i prezzi al ribasso potrebbero mettere pressione sui ricavi derivanti dal petrolio. Inoltre c’è il problema più grande dell’esaurimento dei vecchi giacimenti siriani legato alle ingenti quantità di carburante utilizzate per le operazioni militari che di conseguenza sottraggono beni da immettere sul mercato. I tempi dei Califfati sono lontani, l’Isis come gli amici-nemici di Al Qaeda, rischiano di non consolidare l’edificazione di una vera e propria struttura statale e amministrativa di stampo jihasista. Per quanto organizzata, siamo di fronte all’ennesima rete terroristica isolata con il resto del mondo.
Ultimo elemento, non meno importante è la “furia iconoclasta” del regime. Paolo Gentiloni e Dario Franceschini, rispettivamente ministri degli Esteri e dei Beni e delle attività culturali e del Turismo, celebravano il “successo” per il “sì” del Consiglio esecutivo dell’Unesco alla proposta italiano di istituire meccanismi per l’uso dei “caschi blu della cultura”. Una task force internazionale, la quale dovrà intervenire laddove il patrimonio dell’umanità viene messo a rischio da catastrofi naturali o da attacchi terroristici. La decisione è infatti arrivata dopo i video pubblicati dallo Stato Islamico sulla distruzione dei siti archeologici come Nimrud, Hatra, Khorsabad, Palmira in Iraq e in Siria da parte dei suoi miliziani. Peccato però che gli indignati non fanno altro che rinsaldare la strategia mediatica e le casse del Califfato, invece che impedire questo scempio. In realtà dietro alla furia iconoclasta si nasconde un business da milioni di dollari. A rivelarlo è stata l’archeologa franco-libanese Joanne Farchakh intervistata dal giornalista Robert Fisk per l’Independent. “L’Isis prima vende le statue, i reperti, qualunque cosa richiesta dai compratori sul mercato internazionale – racconta al quotidiano inglese – poi prende il denaro e fa saltare in aria il tempio da cui queste cose provenivano, così da distruggere tutte le prove“. Da un lato dunque le riprese possono essere vere e proprie messe in scena per nascondere questo commercio di statue, ceramiche, mosaici, bassi rilievi, monete, frontoni di pietra e affreschi; dall’altro può accadere che la demolizione avviene solo parzialmente così da non far sapere quali pezzi sono stati venduti dopo il saccheggio. La scoperta di questo traffico occulto che coinvolge lo Stato Islamico, compratori privati delle capitali del mondo dell’arte e gruppi organizzati della criminalità turca, i quali permetterebbero il transito verso l’Europa e gli Stati Uniti, è stato ampiamente documentato da diversi esperti.
Tra questi Mark Altaweel, archeologo americano di origini irachene nonché docente all’Università College di Londra, il quale in un’intervista rilasciata all’emittente televisiva “Russia Today” ha mostrato i siti di antiquariato inglesi che vendono a prezzi stratosferici resti artistici provenienti da Siria e Iraq. Altaweel è una figura molto autorevole, tanto che il quotidiano The Guardian si era fatto portare quest’estate a spasso nella regione per svolgere un’inchiesta volta a scoprire il logo di provenienza di molti oggetti sparsi nel mercato occidentale dell’antiquariato. Le sue conclusioni vanno nella stessa direzione di quelle di Joanne Farchakh che nell’intervista ha spiegato “l’Isis ha saputo imparare dai suoi errori, quando iniziò a distruggere i siti in Siria e in Iraq, arrivarono con i martelli, gli autocarri, distrussero ogni cosa più velocemente possibile e ne fecero un filmato brevissimo. Nimrud venne fatta saltare in aria in un giorno, ma il filmato che ne uscì fu di soli venti secondi. Non so quanta sia l’attenzione che si può catturare con un video così breve”. Ora però che ci sono i compratori è cambiata la strategia. L’arte è un guadagno raffinato quanto quello del petrolio e delle armi.

Una nazione è viva quando è viva la sua cultura. Sono queste le parole che sanciscono la nascita dei Caschi blu della cultura, diventati realtà il 16 febbraio del 2016, con un accordo storico tra il Governo italiano e l’Unesco. A firmare il memorandum per la costituzione della task force italiana ‘Unite for Heritage’ a difesa del patrimonio culturale a rischio, presso l’Aula X delle Terme di Diocleziano a Roma, il direttore generale dell’Unesco, Irina Bokova, il ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, Dario Franceschini, il ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini, e il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Tullio Del Sette. A destra: un casco blu della Cultura cileno.

Adesso infatti – spiega l’archeologa franco-libanese “l’evento viene annunciato da una grande esplosione, poi arrivano, frammentate, le sequenze dettagliate di quello che è avvenuto“. Come la distruzione di Palmira dove sono state documentate prima le esecuzioni dei soldati siriani nel tempio romano, poi sono stati mostrati gli esplosivi legati attorno alle antiche colonne, ancora la decapitazione del coraggioso custode – in pensione – del tempio e soltanto alla fine la distruzione del sito. Un evento costruito ad arte sia per i media, che ormai si erano rifiutati di mandare in onda altro sangue, sia per i mercanti d’arte, perchè “più a lungo dura la devastazion, più salgono i prezzi dei reperti rubati“. Insomma i “caschi blu della cultura” più che recarsi nelle aree minacciate dallo Stato Islamico dovrebbero seguire il traffico occulto che conduce nelle principali capitali occidentali.

 

Per approfondimenti:
_Sebastiano Caputo, Alle porte di Damasco, viaggio nella Siria che resiste – Edizioni Circolo Proudhon 2016

 

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