14 Nov La controversa epopea sulla protezione dei Diritti umani
di Miriana Fazi del 14/11/2016
Un primordiale meccanismo di di protezione dei diritti umani è stato articolato sulla scorta d’una complessa costruzione giuridica, quale fu quella ideata e prevista nella Carta ONU. A tal proposito, considerata la rilevanza della suddetta “rete protettiva”, non è d’uso far passare sotto silenzio le vicende storiche e geopolitiche, delle quali la sua elaborazione fu spettatrice. Di fatto, dietro alla Carta delle Nazioni Unite si cela un animato dibattito che ha visto schierati sui più disparati fronti i maggiori Stati firmatari, sovente in forma di coalizioni latrici d’un unico intento comune.
Il foro che prestò voce alla disquisizione fu senz’altro la Conferenza di Dumbarton Oaks, alla quale presenziarono i rappresentanti di Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Cina. Il fine astratto e unanimemente perseguito si risolveva nel delineare i profili fondamentali che – di lì a poco – sarebbero valsi ad attribuire un nuovo volto all’organizzazione in procinto d’essere creata, l’Onu, atta a rimpiazzare l’ormai acclaratamente decaduta “Società delle Nazioni”.
Nel corso delle discettazioni, tuttavia, non tardarono a presentarsi forti incongruenze tra le manifestazioni di volontà operate da uno Stato e le sue prese di posizione giuridicamente vincolanti. Le prime, munite di mero carattere programmatico, non obbligavano il Paese che le avesse rilasciate ad attenervisi strettamente senza possibilità di deroga. Per contro, le seconde, figuravano come elementi normativi lesivi del principio della piena sovranità statale. A tal proposito, il concetto di Comunità Internazionale, a quel tempo, era ancora agli albori della propria esistenza e ogni Stato, fino ad allora, era sempre stato inteso come dotato del potere di non riconoscere superiori a sé (c.d. superiorem non recognoscentes, ndr).
Tuttavia, la necessità d’istituire meccanismi di tutela giurisdizionale in seno a un’organizzazione “imparziale” fu il moto propulsore che spinse ogni Stato a limare in parte le proprie pretese autocratiche, almeno riguardo alcuni profili specifici d’interesse collettivo.
Pertanto, fin dalla Conferenza di Dumbarton Oaks, la posizione iper garantista degli Stati Uniti – cristallizzata in una proposta di disposizione sui diritti umani – si pose inizialmente in contrasto con quella di Gran Bretagna e URSS, che presentavano mozioni decisamente più caute sull’argomento.
Le prime scintille di disaccordo presero una forma meno fumosa in un secondo momento, ovvero nella Conferenza di San Francisco: entro quest’ultima si delinearono nettamente tre schieramenti di vedute antitetiche. Da un lato emergevano i Paesi Latino Americani (in special modo Brasile, Colombia, Cile, Cuba, Repubblica Dominicana, Equador, Messico, Panama, Uruguay), congiuntamente ad alcuni Stati Occidentali (Australia, Nuova Zelanda, Norvegia) e ad altri Paesi come l’India. Il primo schieramento in parola avanzò la proposta di sancire un vero e proprio obbligo internazionale ai fini del rispetto dei diritti umani.
In seconda istanza, un altro schieramento tentò di stemperare la forza delle dichiarazioni rilasciate dal primo. I Paesi del Secondo schieramento, ossia i Paesi Occidentali, non mancarono di dirsi favorevoli al piano congegnato per lo sviluppo dei diritti umani, ma si ritraevano di fronte al carattere della sua vincolatività. Il malumore che attanagliava tali Stati era legato al rischio di un’eccessiva delega di poteri alle Nazioni Unite; delega dalla quale sarebbe inevitabilmente derivata un’espansione della sfera d’azione in seno all’ONU.
Capofila del secondo schieramento furono senz’altro gli Stati Uniti, che si opposero vigorosamente a un ampliamento dell’art.56 della Carta delle Nazioni Unite. L’effetto di tale serrata ebbe le sue ripercussioni nella formulazione del medesimo articolo, il quale venne orientato in chiave programmatica e non obbligatoria. Peraltro, gli Stati Uniti proposero l’inserimento di una “clausola di tutela della sovranità degli Stati”, contro eventuali ingerenze dell’ONU. Quest’ultima richiesta si è concretata nella stesura dell’art 2 par 7, in virtù del quale le Nazioni Unite non possono intervenire su questioni annoverabili entro il margine della competenza interna di uno Stato.
Idee ancora differenti vennero adottate nell’ambito del terzo gruppo di Stati, quelli Sovietici (Bielorussia, Cecoslovacchia e Ucraina) capeggiati dall’URSS. Costoro, pur allineandosi sul comportamento restrittivo del secondo gruppo, imperniava la propria linea dialettica sulla rivendicazione di un “diritto all’autodeterminazione dei popoli”, vieppiù fortemente avversato da parte dei Paesi Occidentali, affiancati da alcune ex potenze coloniali come il Belgio.
Benché finora si sia tentato di analizzare il nucleo essenziale delle pretese di ogni fazione, è assai arduo saper enucleare una linea concettuale comune che sappia efficacemente esprimere il concetto di “diritti umani nel 1945”. Infatti, mentre l’URSS propugnava un’esplicita menzione dei “diritti al lavoro e all’istruzione”, gli Stati Uniti si mostravano recalcitranti all’idea di tipizzare legislativamente una categoria tassonomica di diritti meritevoli di tutela, ritenendo che un inevitabile corollario di tale specificazione sarebbe stata la declassazione implicita e la subordinazione gerarchica di altri diritti parimenti rilevanti, quali – a titolo esemplificativo – erano stimati il diritto alla libertà di informazione e alla libertà religiosa.
A un’attenta analisi, persino nell’attuale versione della Carta ONU manca un catalogo che acclari quali siano i “diritti umani” tutelati di fatto, per quanto la voce “diritti umani” figuri ben sette volte nella Carta ONU medesima. Con buona approssimazione, si può ipotizzare che una così evidente lacunosità derivi dalle vedute contrapposte di USA e URSS fin dal secondo dopoguerra.
Peraltro, la riottosità generale dei Paesi a operare una delega di poteri esclusivamente appartenenti allo Stato ha ingenerato una depressione a tratti patologica, nel funzionamento dell’Assemblea Generale e dell’ECOSOC (Comitato Economico e Sociale). Le funzioni ad essi riconosciute si ascrivono entro la possibilità di “intraprendere studi” e di “indirizzare raccomandazioni agli Stati” (c.d. norme Soft law).
Ad aggravare il quadro già precario si è aggiunta l’ecumenica pretesa – in danno dell’Onu – di potersi esprimere soltanto mediante delibere di carattere generale e astratto, senza rivolgersi direttamente contro uno Stato, che si sia reso eventualmente responsabile di una violazione dei diritti umani.
Ne “I diritti umani oggi”, Antonio Cassese saluta la Dichiarazione Universale come “il frutto di più ideologie: il punto d’incontro e di raccordo di concezioni diverse dell’uomo e della società”. Di fatto, la travagliata genesi del succitato documento annovera tra le proprie fonti ideali la matrice giusnaturalistica, l’influenza dello statalismo dei paesi socialisti, il principio nazionalistico della sovranità (supportato, quest’ultimo, con largo favore da tutti gli stati).
La Carta ONU, per quanto densa di precetti garantistici, presentava una lacunosità rilevante e inescusabile, considerati i fini che le Nazioni Unite si erano prefissate di perseguire. Da tali manchevolezze sul piano del diritto positivo derivava un’impasse procedurale inaggirabile. Pertanto la comunità internazionale nella sua interezza aveva avvertito la necessità di emanare un nuovo documento, che sanasse i profili deficitari della Carta ONU, in vista di attribuire una maggiore effettività ai meccanismi di tutela dei diritti già debitamente e precedentemente declamati.
A tal fine, nel 1946 il Consiglio Economico e Sociale, esercitando i poteri conferitigli dall’art 68 della Carta ONU, provvide alla creazione di una “Commissione di diritti umani”, organo composto da 18 Stati, rappresentativi dei compositi schieramenti insediatisi in seno all’Assemblea Generale.
All’epoca dei dibattiti preliminari alla costituzione della Dichiarazione, i Paesi coinvolti non formulavano voci concordi sulla natura della stessa, né sulla valenza giuridica che avrebbe dovuto esserle stata accordata. Tali discrepanze prendevano le mosse da presupposti di partenza notevolmente divergenti, dai quali i Paesi medesimi facevano derivare le proprie posizioni. Dalle prime discettazioni, a tal proposito, emerse uno scenario popolato da quattro schieramenti: Paesi Occidentali, America Latina, Europa Socialista, Paesi Asiatici.
La tesi occidentale era imperniata su poche pretese, ma perentorie. Tra queste, figurava la proposta di proclamare sul piano interstatuale le concezioni giusnaturalistiche, che avevano permeato e ispirato i grandi testi giuridici interni. Infatti, secondo la testimonianza di Joseph P. Lash, pare che John P. Hendrick (rappresentante del Dipartimento di Stato USA) avesse affermato che – “la politica degli Stati Uniti consisteva nel produrre una Dichiarazione, che fosse la copia in carta carbone della Dichiarazione americana d’indipendenza e della Dichiarazione americana dei diritti dell’uomo” -. Eppure, a una seconda analisi, la posizione degli occidentali sembrava viziata da alcune incongruenze: in effetti, secondo i programmi propinati, alle laute dichiarazioni di tutela non avrebbe fatto seguito una piena effettività. Questo perché si riteneva di voler proclamare a livello mondiale soltanto i diritti civili e politici, nel limite della loro connotazione sostanzialmente individualistica, che essi avevano rivestito nel Settecento e nell’Ottocento. I paesi Latino Americani e Socialisti riuscirono a temperare il rigore occidentale, orientando la sua visione in senso migliorativo. Si postulò così anche l’inserimento di una serie di diritti economici e sociali, in parte ignoti ai testi occidentali presi a riferimento.
Per quanto i paesi socialisti si fossero mostrati ben disposti alla recezione del messaggio di Roosevelt del 1941, essi miravano verso orizzonti più lontani di quelli circoscritti alla tutela della “libertà dal bisogno e dalla paura”, baluardo dei riferimenti occidentali.
L’azione dei Paesi in parola fu rilevante nella fase deliberativa, ma non spiegò i suoi effetti al momento della firma. Tali stati, infatti, si astennero dall’esprimere un voto sull’insieme della Dichiarazione, dacché gran parte degli emendamenti da essi proposti non erano stati accolti.
Per ragioni d’altra natura si astennero dal voto anche Sud Africa e Arabia Saudita. Ad ogni modo, le direttrici d’azione proposte dai Paesi Socialisti furono varie. Anzitutto questi ultimi sostennero l’inserimento – nella Dichiarazione – di diritti rilevanti, come il diritto di ribellione contro autorità oppressive; il “diritto di manifestare nelle strade” come parte della libertà di associazione; il diritto delle “minoranze nazionali” a vedersi riconosciute e tutelate; il diritto all’autodeterminazione dei popoli coloniali; il principio d’eguaglianza (che si sostanziava nel divieto di discriminazioni basate su razza, sesso, colore, lingua, religione, opinioni politiche, origini nazionali, statut et cetera). Altresì, l’attenzione dei Paesi socialisti si focalizzò sull’urgenza di dare attuazione ai diritti sanciti nella Dichiarazione con meccanismi ad hoc; affinché nessuno stato firmatario avesse potuto aggirare il loro carattere vincolante in un futuro prossimo.
Quanto alla “libertà di pensiero”, i Sovietici ritennero di volerla inibire agli apologeti del fascismo e ai suoi proseliti, tacciati d’essere flagello della libertà e dunque indegni di poterla esercitare in questo senso.
Per approfondimenti:
_Antonio Cassese, I diritti umani oggi – Editore Laterza
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