L’arte in Walter Benjamin: tra l’aura e lo choc

L’arte in Walter Benjamin: tra l’aura e lo choc

di Liliane Jessica Tami del 28/10/2016

Il filosofo Walter Benjamin con le sue tesi sulla filosofia dell’estetica, ha segnato la storia della percezione del gusto e del bello in rapporto col capitalismo. Nel post-moderno, l’arte concettuale e decostruttivista, ha introdotto la serialità come principio di un’opera d’arte: dunque l’originale viene riprodotto in serie, conferendo al manufatto artistico quella bruttezza estetica e spirituale senza precedenti. Questa modalità pare aver preso il sopravvento e soprattutto il monopolio del mercato, grazie alla sua facilità di produzione. Sicuramente discutibili appaiono le opere d’arte dei vari Ai Wewei o Maurizio Cattelan etichettati dai più come “artisti decadenti”. Dunque, lo scopo di questa riflessione sull’arte sarà proprio quella di interrogarsi sul senso del bello.

Walter Bendix Schoenflies Benjamin (Charlottenburg, 15/07/1892 – Portbou, 26/09/1940) è stato un filosofo, scrittore e traduttore tedesco di origini ebraiche.

Walter Benjamin ci offre un ottimo metro per giudicare il valore “estetico” di un’opera d’arte senza cadere nell’assolutismo totalitarista. A parer suo vi sono due tipi di creazioni artistiche: Quelle aventi un’aura e quelle che senza questa, per colpire l’osservatore, devono avvalersi dell’impatto. “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” saggio apparso completo nel 1936, è l’opera più importante di Walter Benjamin. Nel periodo in cui il partito nazista emana le nuove regole sull’arte tedesca volute da Adolf Hitler, lo scrittore stila questo scritto. Se pur in maniera differente e per ragioni diverse, il nazional-socialismo e il filosofo ebreo condannavano aspramente l’arte del capitalismo ritenuta una forma degenerativa dell’arte.

Walter Benjamin, ha criticato le nuove forme d’arte distinguendo l’arte avente un’Aura, da quell’arte senz’aura definendo quest’ultima “shokkante”. Alcune avanguardie che creavano, a detta di Benjamin, opere scadenti hanno costretto la società, fratturata tra democrazia e totalitarismo, a confrontarsi con una nuova concezione di Bello.
Nell’ottobre del 1935 Walter Benjamin scrisse una lettera a Max Horkheimer in cui asseriva che «Per noi l’ora del destino dell’arte è scoccata e io ho fissato la sua cifra in una serie di riflessioni provvisorie che recano il titolo “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”». Tali riflessioni, condivise inizialmente con Adorno, sono frutto di un’acuta analisi su come l’evoluzione dei mass-media abbia causato dei mutamenti ontologici dell’arte stessa.
In questa griglia vi è il riassunto delle teorie estetiche di Benjamin, in cui si espone il concetto di choc, che stando esattamente agli antipodi del termine aura, decreta la morte dell’arte. Le principali differenze tra i concetti di aura e di choc qui sono esposte in modo semplice, e di fronte ad una qualsiasi opera d’arte possiamo usarla per interrogarci sul suo reale valore estetico ed etico.
Per chiarire tale teoria l’autore si avvale di un esempio concreto: i dadaisti scrivendo poesie definibili “insalate di parole” e contenenti locuzioni oscene, vogliono solamente suscitare l’indignazione del pubblico.
Durante le epoche che il filosofo definisce decadenti, l’arte si riveste di stravaganze e col pretesto dell’innovazione e dell’avanguardia può dar sfogo agli impulsi più barbari che s’annidano negli artisti. Nelle loro teorie soggettive, i movimenti artistici d’avanguardia mirano a superare sé stessi cercando di imitare un’altra forma d’arte. Nel caso del Dadaismo o del Futurismo si avvia un tentativo di ottenere gli stessi risultati di dinamicità e velocità dati dalla cinematografica disprezzando così invece i mezzi e la tecnica dell’arte pittorica convenzionale e accademica.

manifesto Dadaismo.

Il risultato così ottenuto da artisti come Jean Hans Arp, il quale scagliava pallottole di carta straccia in aria lasciando che si incollassero su dei cartoncini, sono un radicale annientamento dell’arte. Analogo è anche il caso della poesia d’avanguardia: non dovendo più somigliare a se stessa (per tentare di scimmiottare la velocità e la manipolazione del dato spazio-temporale che invece nell’ambito cinematografico sono consentite) rinnega la sua forma classica e diventa qualcosa di nuovo. Di fronte alle poesie colme di spazi vuoti, monologhi insensati e onomatopee confuse di August Stramm (uno dei primi espressionisti) è impossibile raccogliersi in silenzio a meditare.
Tornando al concetto di Benjamin, “l’arte viva” con la sua “aura”, grazie al suo rasserenante esistere in un luogo per volta, possiede una fissità nello spazio e nel tempo che consente all’osservatore quelle azione statiche della contemplazione e della critica ragionata, essenziali per concepire un’opera d’arte in quanto tale.
L’arte d’avanguardia, per via del suo dato dinamico, irruente e aggressivo, è uno spettacolo che non consente una concentrazione contemplativa perchè mira, volutamente, a voler essere inutilizzabile a quei fini artistici tipici della pittura, della scultura e dell’architettura.
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Michelangelo-Buonarroti – La Cappella Sistina (Particolare).

Infatti l’arte dei dadaisti, nata più per dissidio politico nei confronti della società che per semplice e genuino amore per il bello, ha l’esigenza di suscitare la pubblica indignazione. Questa sua essenza violenta, sia nell’esecuzione che nel risultato finale, colpisce l’osservatore come un proiettile di pistola e lo investe travolgendolo proprio come le sequenze di fotogrammi che dallo schermo ghermiscono l’attenzione del pubblico riducendolo in uno stato costante di choc. L’effetto di choc causato dal cinema, per mezzo dei mutamenti dei luoghi dell’azione e delle inquadrature, è colto dalle masse con una maggior presenza di spirito, nel senso che esso, a differenze delle poesie di Rilke o dei dolci idilli dipinti da Derain, è più coinvolgente, ma anche più estraniante dalla realtà.
L’opera d’arte avente un’aura per essere goduta e apprezzata necessita di tempo, introspezione e riflessione su di essa. L’osservatore attento e predisposto al raccoglimento, in questo caso, penetra nell’opera, vi si immerge. Al contrario la massa distratta e disattenta fa sprofondare l’opera d’arte in sé perché la sua ricezione avviene tramite la collettività e in maniera disattenta e superficiale. Benjamin espone l’esempio dell’architettura: essa, la più atavica fra tutte le forme d’arte è circonda da tutti i cittadini della città, eppure la maggior parte di questi assuefattasi ad essa, hanno cessato di percepirla come un’opera d’arte e ne fruisce nella distrazione, senza più percepirla come tale.
In modo analogo anche le masse, assuefatte all’arte cinematografica e alle nuove creazioni statiche, assorbono le creazioni circostanti senza più prestar loro la dovuta attenzione e senza più avvertire il bisogno di contemplarle, commentarle e quindi criticarle. Benjamin, con una notevole lungimiranza, parlando delle opere d’arte create a fini altri rispetto a quelli artistici e usate in modo disattento, anticipa la nascita del design.
La fruizione tattile dell’opera d’arte a cui le masse vengono addestrate, le getta in uno stato di totale acriticità e passività nei confronti dell’opera d’arte stessa e ciò permette agli individui di fruirne pur eseguendo altri compiti nel medesimo istante.
È proprio la televisione, appendice tentacolare del cinema, che insinuandosi in tutte le case ha apportato questa radicale metamorfosi della percezione umana, rendendola inconsapevole. L’aesthesis senza consapevolezza di sé è il più grande trionfo del cinema, che trasforma il pubblico in un esaminore disattento. Il cinema, grazie al suo effetto di choc a cui il pubblico si è abituato in fretta, conduce l’osservatore a un atteggiamento avalutativo, esonerandolo dall’impegno di darvi l’attenzione che invece richiede un’opera d’arte avente l’aura.
Attuando un piccolo salto ancor più nel passato, Platone già asseriva come la più grave piaga che può uccidere un popolo è proprio la licenziosità. Nelle università pubbliche vi sono professori che sono autori di libri che elogiano la pornografia come inevitabile conseguenza della democrazia, facendosi paladini dell’estrema libertà, è questo è un grave pericolo morale. Esistono associazioni culturali che usano il termine “Pop” per banalizzare ogni aspetto culturale con la speranza che un pubblico maggiore affluisca in massa ai loro eventi. Credo che tutto ciò abbia intrinsecamente una grande modestia: l’arte non può e non deve mai essere banalizzata.
L’art pour l’art”, motto dei poeti parnassiani, è la ghigliottina che separa l’arte contemporanea dall’arte neoclassica, il bello dal brutto, l’etico dall’orrido, il bene dal male. Affermare che l’arte sia fine a se stessa significa porre la personalità dell’artista in primo piano ed eclissare così le sue caratteristiche accademiche, tecniche ed educative nei confronti del pubblico che l’osserva.
Agli albori dell’XIX secolo le creazioni estetiche, ammorbate dalle prime teorie sulla libertà democratica di Tocqueville e Benjamin Constant, sovvertirono le forme tradizionali d’espressione artistica e le usuali tecniche accademiche. Così, l’arte, iniziò a divenire il riflesso del mondo interiore degli artisti, assumendo toni sempre più personali e soggettivi, sia nella forma dell’esecuzione che nei contenuti.
Il capitalismo è il morbo da cui s’è propagato il relativismo che più ha messo in crisi le vecchie istituzioni morali, dal clero ai codici d’onore legati alle tradizioni cavalleresche, dalle istituzioni scolastiche al semplice buon gusto.
Nell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des metiers, editto nella Parigi monarchica tra il 1751 ed il 1772, sotto la voce “educazione” si trova il seguente testo: “i fanciulli che vengono al mondo devono formare un giorno la società nellaquale dovranno vivere; la loro educazione è dunque lo scopo più importante: per loro stessi che l’educazione deve rendere tali che siano utili a questa società…per le loro famiglie, che essi devono sostenere e a cui devono conferire lustro; per lo Stato stesso, che deve raccogliere i frutti della buona educazione ricevuta dai cittadini che lo compongono”.

Giovanni Paolo Pannini, Galleria di vedute di Roma antica, 1758, olio su tela

Denis Diderot (1713-1784), che con Jean Le Rond d’Alambert (1717-1783) realizzò la celebre enciclopedia, è erroneamente ricordato come un sostenitore della libertà assoluta di espressione. In realtà, pur difendendo tesi politiche a favore della democrazia, mito oramai sfatato dalla realtà fenomenica che ci circonda, Diderot fu un sostenitore della censura in ambito artistico. Le opere d’arte che rappresentano comportamenti diseducativi, tali atteggiamenti deviati, pornografici, esplicitamente perversi, autolesinisti o omosessuali, a parer suo, non debbono comparire in pubblico, giacchè influenzano in modo negativo la crescita dei fanciulli ed instillano nell’adulto il tarlo del soggetivismo morale. Il relativismo morale, che confonde il bello col brutto, il buono col cattivo, è il primo nemico del buon funzionamento di una nazione illuminata dal lume della ragione. L’artista, secondo Diderot, dev’essere un “philosophe et honnête homme” che, per mezzo dei suoi capolavori, educhi moralmente la società. “Rendere la virtù attraente, il vizio odioso: È questo lo scopo di ogni persona onesta che prende in mano la penna, il pennello o lo scalpello“.

 

Per approfondimenti:
_W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – Edizioni Einaudi
_W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Frammenti, Mimesis edizioni, Milano-Udine,2012
_F. Desideri, M. Baldi, Benjamin, cit.
_W. Benjamin , Aura e Choc, saggi sulla teoria dei media – Edizioni Piccola Biblioteca Einaudi

 

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