12 Set «Vi sono segreti che non si lasciano rivelare»
di Primo De Vecchis del 13/09/2016
Nel Guerrin Meschino (1410) di Andrea da Barberino si narra di un cavaliere errante, che a un certo punto decide di consultare l’oracolo della Sibilla appenninica per conoscere la vera identità dei propri genitori. Il cavaliere si addentra quindi nel monte della Sibilla (una maga, una fata), al cui interno si apre un magnifico regno, popolato di donne bellissime e sensuali, le quali di notte si trasformano in serpenti prima di andare a dormire. La vicenda è ampiamente ricordata da Antoine de la Sale nel Paradis de la reine Sibylle (nella Salade, 1438-1447) e presenta punti di contatto con il Tannhäuser di Richard Wagner, storia di un Trovatore trattenuto presso il Venusberg dalla Dea (ma la filologia è intricata).
Nella mitologia vedica e induista si narra di una mitica razza di uomini per metà serpenti, chiamati nagas, oggetto di culto da tempo immemorabile e latori di fertilità e saggezza. Il Buddha in meditazione è spesso rappresentato con un serpente dalle sette teste, il quale si solleva sopra il suo capo a mo’ di ombrello; trattasi del re naga Mucalinda, convertitosi al buddismo. «Piove, e un re serpente, un naga, si avvolge sette volte intorno al corpo del Buddha formando un tetto con le sue sette teste. Quando torna il sereno, il naga si trasforma in un giovane bramino che si prosterna e dice: “Non ho voluto spaventarti; la mia intenzione è stata proteggerti dall’acqua e dal freddo”. Segue una breve conversazione, e il naga si converte al buddismo» (J. L. Borges, Cos’è il buddismo, Newton Compton, Roma, 1995, p. 25). Ancora in area induista i naga sono collegati al tantrismo (o shaktismo) e al concetto della kundalini, una potente energia sottile che risiederebbe in ogni uomo alla base della spina dorsale, addormentata come un serpente attorcigliato e che opportunamente risvegliata come un cobra eretto può portare al risveglio spirituale (e financo alla santità), ma persino alla follia e alla morte. È noto come il veleno possa trasformarsi in medicina, dipende tutto dalla dose, come già affermava Paracelso (si veda il greco phàrmacon, ma anche il Caduceo delle farmacie). «Il serpente, terribile per il suo veleno, simboleggia tutte le forze malefiche; allo stesso modo la kundalini finché riposa inerte in noi, corrisponde alle nostre energie inconsce, oscure, allo stesso tempo avvelenate e velenose. Inversamente, quelle stesse energie, risvegliate e dominate, diventano efficienti e conferiscono una potenza reale» (Liliane Silburn, La kundalini o L’energia del profondo, traduzione di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 39). Tutta questa bizzarra premessa serve a sottolineare come in molte culture (pensiamo anche ai nativi americani, agli Aztechi e ai Maya) l’emblema del serpente sia legato alla trasformazione, alla metamorfosi, all’unità cosmica, e abbia una valenza spiritualmente positiva. Nella tradizione ermetica medievale l’alchimia non è solo un processo esteriore (trasmutare il piombo in oro), ma soprattutto interiore (trasformare le basse pulsioni, negative, egoistiche, in alte aspirazioni spirituali, positive, al servizio dell’umanità).
Al contrario, una condanna irrimediabile della “saggezza” del serpente si trova nell’Antico Testamento, principalmente nella Genesi: «Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”» (3,5). Nell’Apocalisse di Giovanni si parla del «serpente antico» (12, 8), adorato dai popoli della terra da tempo immemorabile. Il profeta Daniele uccide il drago venerato dai Babilonesi (Daniele 14, 23-30). Ora vorrei tranquillizzare il lettore: non sto recensendo un trattato di religione comparata o un saggio di Mircea Eliade sullo sciamanesimo, bensì il romanzo di esordio di Luciano Funetta (classe 1986), intitolato Dalle rovine, edito dalla piccola casa editrice Tunué, ospitato in una collana di narrativa contemporanea curata da Vanni Santoni. Dalle rovine di Funetta si può definire un libro “strano” (weird?) o financo “bizzarro” (affine alla Bizarro Fiction?), a metà strada tra l’horror, l’assurdo, l’esistenziale e il fantascientifico distopico. Il tema preponderante del libro è la pornografia (artistica), ovvero quella nicchia della pornografia audiovisiva che denota persino una finalità di ricerca espressiva (non conosco bene il settore). L’altro tema del libro (affine alla sessualità umana filmata) è quello della morte, della decomposizione, dell’entropia (anche la morte può essere filmata). Il narratore del libro è un “noi” indefinito, che somiglia quasi a una legione di spettri afflitti da sindrome voyeuristica. Lo stile del libro è gelido e visivo, affine talora all’école du regard di Alain Robbe-Grillet, ma meno frigido in realtà, anzi sotterraneamente impetuoso (dostoevskiano come certi topi del sottosuolo). I personaggi del libro hanno dei nomi strani, allusivi, talora giocosi (come accade in certi romanzi del cileno Roberto Bolaño: mi è venuto in mente, leggendo Funetta, non so perché, Notturno cileno). Rivera è un collezionista di serpenti velenosi, che si fa filmare nudo mentre ha un rapporto intimo con i rettili, tuttavia conserva l’ingenuità di un bambino, incline allo stupore, quasi fatato. Cito un passo della scena erotica, che mi ricorda l’episodio narrato poc’anzi da Borges: «Una di loro [le bestie] si arrampicò tra i capelli pettinati all’indietro, raggiunse la sommità della testa e impennò la parte anteriore del corpo, restando in equilibrio sulla coda. Il serpente rimase in quella posizione e Rivera chiuse gli occhi. Muoveva le labbra come se stesse pronunciando frasi in una lingua incomprensibile» (p. 14). Jack Birmania è un produttore di film porno artistici e ha fondato la casa di produzione Venere Birmana. È un ammiratore del film Freaks (1932), diretto da Tod Browning: «Gli uomini erano tutti individui deformi, uomini dalle teste calve e gigantesche, gemelli siamesi, nani, uomini e donne senza braccia e senza gambe che somigliavano a foche, vecchi scheletrici con i loro sigari tra le labbra» (p. 32). Un immaginario umoristico e crudele che mi ha riportato subito alla mente una geniale raccolta di racconti di Juan Rodolfo Wilcock, “Il caos” (Bompiani, 1960), da tempo fuori catalogo (lo scrittore recitò la parte di Caifa nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini). Eugenio Laudata è un regista di film porno artistici, un po’ svitato, ammiratore tra le altre cose di Cannibal Holocaust, film cult di Ruggero Deodato (con Luca Barbareschi). Maribel Lalande è un’attricetta francese di film porno, quasi evanescente. Klaus Traum è un altro produttore, stavolta tedesco, che ha fondato la casa di produzione Traum Sueño. Alexandre Tapia è un “fuggiasco” argentino, un uomo viscido e repellente, che ha scritto la sceneggiatura di un film irrapresentabile, intitolato Dalle rovine, una sorta di snuff movie. Tapia è il centro ineffabile di questa “fiaba” (nerissima). Non ho ancora parlato delle ambientazioni: la città di Fortezza (inventata, una periferia allucinata di Roma?), la città di Barcellona (fin troppo realistica a tratti). Tapia infatti, che vive a Barcellona, rappresenta il nucleo enigmatico del romanzo: il suo passato è inconfessabile.
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