03 Ago Immanuel Kant e il nichilismo Europeo
di Francesco di Turi del 03-08-2016
Cominciamo in via provvisoria con il localizzare il nichilismo nella storicità europea attraverso due nodi interni ad esso che determinano le sue tre direttrici di senso storiche.
Che cos’è «nichilismo»? Nichilismo è l’erosione del senso, l’impossibilità dello stesso domandarsi il «perché» delle cose. L’inutilità e l’illusione che la domanda sussista. Nichilismo non è semplicemente il fatto, già di per sé stesso inquietante, della mancanza di una possibile risposta al «perché» ma, più radicalmente, è la stessa insensatezza della domanda, la sua interna natura dialettica. Questa è un’accezione precisa di nichilismo e pur tuttavia non l’unica; più precisamente essa è la forma che il nichilismo europeo assume solo con Nietzsche e dopo Nietzsche ma non necessariamente in Nietzsche, è il luogo in cui il nichilismo precipita in se stesso facendosi assoluto nel senso rigoroso della nozione. La condizione della possibilità di un simile precipitare assoluto del nichilismo ha nome Immanuel Kant.
Ma il nichilismo risale più indietro dello spazio che si distende tra Kant e Nietzsche; il luogo d’origine del nichilismo, in cui esso presenta un’altra accezione: è la sua «metafisica», il «nichilismo incipiente» il quale trova il suo punto di arrivo nel filosofo di Königsberg ed ha la sua origine nella modernità egologica cartesiana che si concretizza attraverso la matematizzazione e formularizzazione della scientificità fisica (Galileo), politica (Hobbes), metafisica (Leibniz). Il principio nichilistico, in questa fase della sua storicizzazione, è ancora subordinato ad una sostanzialità vuoi teologica vuoi strettamente razional-metafisica; per questo lo definiamo «incipiente» e «metafisico». È un luogo di passaggio in cui il medioevo è stato certamente superato dalla modernità eppure esso è ancora presente con i suoi presupposti metafisici e teologici che dominano il nichilismo appena incipiente. Si deve parlare rispetto a questo spazio che va dal principio della modernità a Kant di «nichilismo incipiente» poiché sì operante ma tuttavia blandito, domato da un elemento metafisico e teologico ancora egemonico eppure già residuo perché la dialettica del nichilismo ha iniziato la sua azione. Di conseguenza già possiamo riconoscere le tre determinazioni al cui interno si collocano i due nodi del nichilismo europeo, ognuno qualitativamente differente dall’altro: il nichilismo nella sua fase incipiente e ancora subordinato, il nichilismo nella sua fase dominante in quanto egemonico e il nichilismo assoluto ossia sciolto e dispiegato in tutta la sua forza.
Allorché Nietzsche afferma in tono profetico nell’ultimo quarto del XIX secolo che ci racconterà la «storia dei prossimi due secoli», ossia la storia del nichilismo, noi dobbiamo prestare molta attenzione circa il senso del conteggio di questi «due secoli». Ciò che Nietzsche in verità ci racconta non è la storia del XX e del XXI secolo bensì, in un senso più aderente all’effettivo decorrere del nichilismo, una storia il cui attuarsi si distende a partire dall’origine della sua fase dominante, e cioè da Kant. La storia che ci racconta Nietzsche è sì la storia di due secoli, ma dei secoli XIX e XX, quelli inclusi nelle ultime due fasi del nichilismo.
La svolta copernicana di Kant si determina nella riconduzione della stessa possibilità di ogni scientificità a partire dalle strutture trascendentali dell’Ich denke, dell‘Io penso, il quale in virtù di esse, a priori, plasma, ordina le affezioni del molteplice, esteticamente attraverso le intuizioni pure dello spazio e del tempo, categorialmente nella sussunzione intellettiva del dato fenomenico già sempre trascendentalmente spazio-temporale. Le strutture trascendentali della ragion pura necessitano del dato fenomenico, della concretezza, affinchè l’universalità delle proprie strutture a priori determinino la possibilità di una conoscenza reale produttiva. Se, al contrario, le strutture a priori della sensibilità e dell’intelletto sintetizzano concettualmente e spaziano indipendentemente dal dato fenomenico, è allora che sorgono le idee della ragione intrinsecamente dialettiche, illusorie, metafisiche. La ragion pura opera idealmente su un campo che le è proprio e appropriato fintanto che esso viene ricondotto e saldato al dato fenomenico; eppure, al tempo stesso, questo medesimo «campo» le è altrettanto «proprio» seppur illusorio in quanto essa si distacca dal dato fenomenico. Questa è la dialettica interna alla metafisica di Kant. La metafisica è per Kant lo spazio illusorio in cui la ragion pura si inoltra, spazia, senza alcuna possibilità di reale giustificazione, deduzione, rispetto alle problematicità poste da essa. I problemi irrisolti della metafisica, che sono anche per Kant i postulati della ragion pratica (l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, libertà), sono strutturalmente impediti ad essere risolti, sono indecidibili, poiché la concettualità ad essi applicata non presenta il necessario sostegno nel dato esperienzial-fenomenico. La metafisica si fa impossibile, è dialettica; le idee della ragione che la costituiscono, nel momento stesso in cui tentano di sintetizzare i concetti senza radicamento fenomenico si rivelano sogni. Ma l’uomo è per Kant un animale metafisico, ossia un ente naturalmente predisposto, poiché a lui proprio, all’uso improprio della ragione metafisica. Perché? È questa la domanda che ci interessa maggiormente. In realtà qui Kant si trova al cospetto del baratro che è lui stesso. Perché l’uomo è «animale metafisico»? Kant dà due risposte a questa domanda decisiva. La prima è quella che considera la funzione delle idee della ragione in quanto «regolative», e cioè necessarie all’esigenza da parte dell’Erkennen, del conoscere, di risalire dal condizionato all’incondizionato, ossia di rinsaldare la molteplicità del fenomenico ad un principio ultimo che coordini la totalità delle condizionatezze di cui l’uomo fa esperienza, il tutto al fine di operare una sistematizzazione del sapere stesso; questa è l’esigenza e il presupposto della stessa idea di «sistema» che domina e fonda il senso di ciò che sarà l’idealismo tedesco. In questo «trasalire» concettuale della ragione, che è anche principio sistemico del sapere, risulta inevitabile però che essa si sganci dalle stesse esperienze e, proprio perché da esse si scioglie, diviene metafisica, dialettica: sogno. La seconda risposta è a nostro avviso ben più rilevante, carica di conseguenze e corollario inevitabile della prima; la natura metafisica dell’uomo, proprio perché conoscitivamente inadeguata ad ogni risoluzione dei problemi metafisici, ed essendo al tempo stesso tale disposizione metafisica la sua quintessenza, non potrà allora che rivelarsi, per Kant, nient’altro che una disposizione necessaria per la destinazione pratico-morale dell’uomo a cui è da ricondurre nel suo reale significato la produttività concettuale astratta delle idee delle ragione. In queste due affermazioni kantiane c’è tutto il potenziale cinetico che rende il nichilismo incipiente pre-kantiano nichilismo dominante post-kantiano.
É fondamentale introdurre a questo punto un elemento «psicologico»;
si è detto che nella sua fase incipiente il nichilismo non domina il campo metafisico bensì è da esso dominato e posto in gestazione. Cosa significa in concreto? Significa un’ovvietà che non pensiamo fino in fondo, che non pensiamo per niente nelle sue reali conseguenze.
Un mondo storico, una storicità vivente come quella moderna post cartesiana e pre-kantiana essendo intrinsecamente al di fuori del «criticismo», ossia essendo di fatto ristretta nel suo peculiare dispositivo di senso pre-critico, in verità non è toccata dal discorso kantiano in misura essenziale. Cosa vogliamo dire? Diciamo che l’orizzonte di senso spazio-temporale che si distende da Cartesio a Kant non possedendo la strumentalità critica stessa posta in atto dal filosofo di Königsberg vive il suo orizzonte politico, filosofico, sociale e scientifico in una psicologia individuale e collettiva che tiene per vero e non può non tener per vero la sostanzialità metafisica della sua scientificità, della sua politicità, insomma di tutto il suo mondo-ambiente storico, della sua storicità: è la verità di un mondo storico. Il fatto che il principio nichilistico incipiente sia attivo non toglie quello ben più decisivo del suo essere al tempo stesso subordinato, blandito, eppure covato all’interno di questa fase della sua (del nichilismo) peculiare storicità. Il nichilismo è presente e ciò significa che il «non senso inconscio», ciò che è implicito nella sua struttura formale astratta e sostanziale concreta già agisce poiché appartiene ad esso in senso essenziale trovando solo in Kant un ulteriore punto di svolta, il suo primo nodo, che fa «passare» il nichilismo europeo da uno stadio subalterno alla sostanzialità metafisica, dal suo essere incipiente, ad uno stadio egemonico, quello dominante. Con Kant e dopo Kant il nichilismo domina poiché, svelandosi la metafisica quale illusione concettuale e astratto vagare delle idee, e saldandosi in senso epistemico forte solo ed esclusivamente nella fenomenicità plasmata dall’«ich denke», esso precipita, si radica umanizzandosi nelle «menti e nei cuori» delle singole storicità dando così il via ad un’epoca dominata dalla sua «dialettica»; esso si immanentizza nell’uomo fino a dominarlo esplicitamente; tuttavia quest’ultimo, seppur dominato, continua a mantenersi in una dimensione di epistemicità e formale universalità che è direttamente proporzionale al grado di immanenza che il nichilismo ora presenta. Tutte le categorie politiche, giuridiche e ideologiche che hanno dominato di gran lunga i secoli XIX e XX sono figlie di tutto questo, del nichilismo dominante post-kantiano, ossia già in radice erose e destinate a venir meno a causa dei loro fragilissimi presupposti. È la seconda fase del nichilismo europeo, la sua fase «dominante»; essa si protrae fino a Nietzsche, con il quale e dopo il quale «passa» da dominante ad assoluto.
Cerchiamo di rispondere ad una domanda che a questo punto non può restare inevasa; perché facciamo iniziare la storia del nichilismo europeo con la modernità e non invece con l’origine stessa della possibilità di esso che potremmo scovare nella filosofia greca? Perché non possiamo parlare di nichilismo in riferimento al Medioevo europeo o anche all’Umanesimo italiano e il suo primissimo Rinascimento?
Si è detto che il nichilismo incipiente presenta quale suo presupposto, quale sua condizione della possibilità, l’elemento della soggettività cartesiana unito inscindibilmente al processo matamatizzante che la nuova scientificità galileiana, e non solo essa, presentano. Si può parlare di nichilismo solo se l’auto-posizione del soggetto si combina alla volontà di cattura e risoluzione della natura in formule che la costringono in un’astrattezza che tuttavia dimostra una effettività concreto-operativa altamente eloquente. Ma si è anche detto che il nichilismo non va pensato come un destino. Il mondo greco così come il mondo cristiano medievale e umanistico italiano in verità, pur essendo generatori della modernità europea e di conseguenza del nichilismo ad esso appartenente non ricadono nella maglie del nichilismo perché non hanno mai conosciuto né vissuto come esperienza storica viva l’osmosi dei due principi che nella sua fase incipiente lo innervano. L’uomo greco, cristiano medievale e umanistico, pensa la sua posizione, la sua localizzazione mondano-ambientale in termini del tutto differenti da ogni altra localizzazione esperita a partire dalla modernità. Per essi non esiste, non può esistere e valere, quella che abbiamo definito la dialettica intrinseca del nichilismo.
Se è vero che il principio della soggettività moderna può essere ricondotto al substrato greco nel senso della svolta operata in Platone e soprattutto in Aristotele in merito alla determinazione della Verità come orthotes, come slittamento proto-autorappresentativo di essa nel primo, e come radicalizzazione del discorso platonico sulla «verità» nel secondo; e se è vero che la dimensione matematizzante è altrettanto presente e di notevolissimo rilievo nel mondo greco-classico (pitagorismo, platonismo, lo stesso logicismo aristotelico) è tuttavia ancora più vero che queste due dimensioni, che si inspessiscono e si fondono al principio della modernità, restano nella grecità l’un dall’altra ancora separate, non integrate, non sistematicamente operanti, tanto in un senso strutturale astratto quanto in quello strutturale concreto, tecnico operativo. Il salto qualitativo operato dalla modernità sta tutto in questa osmosi fino ad allora inedita ad ogni configurazione storica del continente europeo (quindi anche alla romanità, al medioevo cristiano e all’umanesimo italiano) le quali pur nutrendo in sé tanto la dimensione della soggettività quanto quella della matematizzazione dell’ente, in realtà, mantenendole separate, ritenendole come astratte – direbbe Hegel – non possono in linea di principio ricadere nella struttura portante stessa di ciò che è il nichilismo europeo. Questa considerazione è a nostro avviso il discrimine stesso che si frappone tra tutto il mondo storico pre moderno e tutto il mondo della storicità ad esso posteriore e che si indirizza su direttrici di senso incomparabili al primo, qualitativamente altre e al cui interno si localizza la storia del nichilismo europeo nella sua fase «incipiente», nella sua fase «dominante» e nella sua ultima fase, quella del nichilismo «assoluto».
Questa storia del nichilismo europeo ha poi due nodi che sono il «passare» del nichilismo incipiente in dominante e del dominante in assoluto.
Già all’interno del pensiero kantiano si nota come la dialettica del nichilismo eroda il discorso stesso di Kant. L’affermazione contenuta nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura nella quale Kant fa capitolare la filosofia al cospetto della fede «ho dovuto sopprimere il sapere per sostituirvi la fede», è l’atto di nascita stessa del nichilismo dominante. Perché?
Kant redime l’umano relativizzando la portata conoscitiva ad una fenomenicità che l’uomo domina scientificamente; al tempo stesso sposta la destinazione metafisica dell’uomo nella sfera pratica, nell’azione all’interno dello spazio delle scelte, da compiere in conformità ad un’universalità imperativa. I postulati della ragion pratica – immortalità dell’anima, esistenza di Dio e libertà – aprono un spazio in cui il non conoscere, superando l’ineliminabile aporeticità dell’istinto metafisico che definisce l’uomo, serve l’essenza dell’umano. La filosofia di Kant, riconoscendo il labirinto dialettico sul piano del conoscere metafisico si giustifica quindi nella sua destinazione pratica, etica; di una moralità che, tuttavia, per sussistere, fa riferimento e aggancio a postulati interamente irricevibili da un punto di vista critico. Il terreno su cui Kant fonda la moralità e quindi il senso stesso dell’uomo si rivela un terreno minato, franoso, reso ormai instabile dalla sua stessa filosofia critica; egli è il primo critico di se stesso nella misura in cui attua nella sfera della moralità, attraverso i postulati della ragion pratica, una fuga in avanti legittimamente interpretabile come una brusca ricaduta in una forma di dogmatismo; un dogmatismo di specie diversa che certo non afferisce al piano della conoscenza e che desidera salvaguardare la destinazione morale dell’uomo, ma che, pur tuttavia, azzarda un passo ormai impossibile da un punto di vista squisitamente critico-filosofico; Kant a ben vedere in questo passaggio decisivo che determina il destino stesso della sua proposta filosofica non è diverso nella soluzione dal metafisico e teologo più importante del medioevo nonché uno dei vertici di tutta la speculazione teologica e filosofica, Tommaso D’Aquino;
il quale scrive parole nella Summa contra gentiles che potrebbero essere perfettamente applicate a Kant; scrive Tommaso «Ora, un desiderio naturale sarebbe inutile, se non si potesse mai attuare. Perciò il desiderio naturale dell’uomo è attuabile.
Ma non lo è in questa vita […]. Quindi è necessario che si attui dopo questa vita». Questa è la stessa necessità all’opera nella filosofia pratica kantiana.
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