John Ruskin: la conservazione della memoria

di Giuseppe Baiocchi del 17/07/2016

John Ruskin non è storico dell’arte, poeta, economista, scrittore, naturalista, architetto, ecologo, filosofo, sociologo, economista, ma forse una loro fusione, poiché riuscì nel lontano 1848 a comprendere le autentiche motivazioni culturali e sociali della conservazione del patrimonio architettonico a vantaggio della vita umana enunciando una vera e propria idea di culto per le rovine romantiche. Il londinese Ruskin, di ricca famiglia borghese, trascorre una infanzia ovattata dalle cure materne che lo renderanno geniale nelle intuizioni ma anche dubbioso e spesso depresso.

John Ruskin (Londra 08/02/1819 – Brantwood 20/01/1900)

La morale materna lo porterà spesso a confrontarsi con l’estetica. Lo scritto delle sette lampade dell’ architettura segnerà il momento in cui prenderà coscienza del rapporto esistente tra arte e società e della relazione tra l’uomo e la natura. Questi studi lo porteranno a conoscere ben presto il pittore romantico William Turner intorno al 1840, che avrà grande stima di lui, ne diverrà amico, e infine, lo nominerà suo esecutore testamentario nel 1851. In breve tempo l’inglese si immerge nella ricerca critica: arti figurative e pittura in particolare.
Viaggerà molto tra Francia e in Italia considerandoli paesi di grande dignità ed equilibrio, paesi che hanno saputo dare eternità alle loro opere architettoniche:
assicurare una lunga vita ad un edificio significa, inoltre, assicurargli la gloria, perché questa “non risiede né nelle pietre né nell’oro di cui è fatto, la gloria sua richiede nella sia età e nella loro imperitura testimonianza di fronte agli uomini, in quella forza che congiunge epoche dimenticate alle epoche che seguono e, quasi, costituisce l’identità delle nazioni”.

Capriccio con costruzioni e rovine classiche, 1751 Canaletto

Corre il 1856 quando matura in lui la convinzione che non ha senso parlare d’arte al di fuori di un più vasto orizzonte di ordine morale e sociale; per tale via, la sua critica dell’arte diventa critica della società che produce l’arte. Inizia allora una battaglia contro i criteri di intervento di restauro dell’epoca, di tipo invasivo, i quali provocavano gravi danni ai manufatti dell’architettura del passato. Inizia ad osservare come il significato dell’architettura implichi sempre dei doveri che l’uomo ha nei confronti della nuovo che costruisce e dell’antico che deve essere conservato.
Nelle “Pietre di Venezia” suo scritto del 1851 e nelle sue pubblicazioni periodiche del “Modern Painters” egli passò a rendere pubblica la sua posizione in campo sociale attaccando apertamente la società industriale inglese, venendo sistematicamente isolato fino alla censura con la pubblicazione tramite il “Political Economy”.
Ruskin non si arrende e si accanisce nella diffusione del suo pensiero tenendo conferenze, lezioni e dando concreta realizzazione alle sue idee con l’organizzazione “the Guild of St.George” del 1871, una diffusione editoriale per gli stati sociali meno abbienti.
L’innovazione che il poeta inglese apportò fu la netta distinzione tra “conservare” e “restaurare” che si svilupperà tramite Camillo Boito in Italia, solamente più tardi.
Oggi, grazie all’inglese John Ruskin e ai francesi Prospero Merimèe e Ludovico Vivet, abbiamo da un lato i principi della tutela del patrimonio architettonico con la teoria della conservazione dei monumenti, e dall’altro lato Viollet-le-Duc, che ha il merito, non meno grande, di aver fissato limiti e norme per l’attribuzione di tale tutela, cioè i caratteri della pratica del restauro.
Nel 1883 l’inglese, con l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche, uscirà progressivamente dalla scena pubblica spegnendosi il 20 gennaio del 1900. Ruskin con la sua morte ci lascia molti capolavori, come il già citato saggio “ Le sette lampade dell’architettura”.
Nel volume spicca il termine “pittoresco” per le opere architettoniche: il manufatto acquisisce un’ ulteriore enorme bellezza che data dal tempo, poiché l’architettura massima è un derivato della capacità umana di trasfigurare la natura, prodotto di Dio, assicurando a questa una lunga vita con l’obiettivo della glorificazione che porta l’opera verso l’eternità. La condizione di eternità porterà l’elemento del “sublime” ad essere la caratteristica fondamentale del “pittoresco”. Da capire è come il sublime lo si trovi meglio negli antichi ruderi, non nelle forme della natura che tornano a contaminare l’opera con gli elementi parassitari, bensì nella sublimità, che conferendo bellezza dell’opera d’arte genera il pittoresco: crepe, fratture, macchie naturali che le conferiscono quelle condizioni di colore e di forme che sono universalmente diletto dell’occhio umano.

Stato attuale delle Terme di Caracalla a Roma. Esempio di architettura pittoresca per Ruskin

La visione romantica, che influenzerà l’estetica vittoriana ed edoardiana, scaturisce nel sesto capitolo del saggio: “Lampada della memoria” che contiene le pagine dove Ruskin ha racchiuso con estrema forza e precisione la dottrina della conservazione, ovvero “quella esigenza non tanto di proteggere i monumenti antichi, quanto di asservire ai medesimi principi sia a costruzione della nuova architettura, sia la tutela della architettura antica affinchè esse costituiscano elementi integranti dell’ambiente di vita della società umana”.
Già nel 1848, il critico d’arte inglese aveva anticipato parte dei principi della “conservazione integrata” che vedremo ratificata in Europa solo del 1975 con la Dichiarazione di Amsterdan.
Altro caro elemento di Ruskin è quello del ricordo, poiché egli parte dall’ affermazione dell’importanza del rapporto esistente tra la natura e l’opera dell’uomo, asserendo come il ricordo renda più prezioso un elemento architettonico in confronto al suo rinnovamento fittizio. Proprio l’architettura ci dona il pensiero del ricordo, facendo da collante fra natura e opera.
Riporto una frase attualissima di Ruskin: “bisogna conferire una dimensione storica all’architettura oggi, conservando quella delle epoche passate come la più preziosa delle eredità”.
Sempre illustrando il suo pensiero, gli edifici pubblici devono possedere un proposito storico definito, avendo l’uomo il dovere di lavorare nell’interesse pubblico non solo per i contemporanei ma per chi verrà dopo; questo è il punto fondamentale: bisogna costruire, pensando che si stia costruendo per sempre, ma con la consapevolezza che quando arriverà l’ultima ora del manufatto architettonico questa sarà dignitosa e sincera. Da qui il suo ostruzionismo oggi applicato contro il restauro invasivo, contro il falso-storico.
Gli edifici privati, invece, devono essere lo specchio della civiltà: “io dico che se gli uomini vivessero veramente da uomini, le loro case sarebbero come dei templi”. Questa frase si riferiva alle condizioni degli operai in Inghilterra, i quali vivevano in condizioni disagiate e rapportata ai giorni d’oggi rimane ancora molto attuale, si pensi ai quartieri malfamati o alle fasce di popolazione meno abbiente. Qui Ruskin si avvicina ad un altro problema dell’architettura: l’abbandono dell’ archè a favore della tècne:
disposte in quelle squallide file di una precisione freddamente regolare, senza differenze e senza alcun senso di fratellanza, tutte uguali e tutte isolate in se stesse, non sono altro che un segno di decadenza dell’umanità, di un’ epoca in cui la comodità, la pace, la religione della casa non sono più sentite come tali ed in cui gente sempre in lotta e in movimento affolla le abitazioni

Fabbrica londinese primo ottocento, con elementi di edilizia privata sulla destra

Dunque il problema settecentesco e ottocentesco dell’affollamento oggi è ancora presente.
Questo fenomeno è da considerarsi come una vera piaga sociale, poiché la cattiva qualità degli edifici residenziali non mostra soltanto il basso livello di educazione e di gusto (o di orgoglio intellettuale di una nazione) quanto anche l’assenza di una sorta di dovere morale nel costruire gli edifici nel modo migliore, di modo che tutto l’ambiente urbano godrebbe di dignità, offrendo al popolo una dimensione di dignità ed equilibrio.
Per Ruskin, dunque, il restauro di Viollet le Duc è una distruzione, quindi il dovere dell’architetto sarà quello di impedire il restauro: basta prendersi cura dei monumenti antichi e una volta arrivati alla fine, lasciarli al crollo per “morte dignitosa”.
La conservazione è il suo principio, il cardine l’immaginazione: l’uomo osservando un opera in stato di rudere elabora un suo disegno stimolando la sua archè, sviluppa varianti dell’edificio tutte personali, e stimola il progetto nell’architetto.
Il restauro invece è un mero inganno poiché (come si faceva all’epoca) inserisce e colma le mancanze senza sapere effettivamente come l’edificio poteva presentarsi in origine, applicando modifiche che uccidono la vera anima del manufatto.
Concentriamoci anche su questa piccola distinzione ruskiniana tra immaginazione e inganno. Immaginare è richiamare alla mente cose che conosciamo, che contempliamo ben sapendo che esse non sono e non possono essere presenti nella realtà. Non vi è inganno nell’immaginazione, poiché se questa ingannasse diventerebbe follia.
Coerentemente il restauro è per Ruskin una falsa descrizione. Priva gli uomini della possibilità d immaginare: compiendo con l’inganno una reintegrazione dell’immagine (dell’opera architettonica che spesso non ha mai avuto in origine) si annulla il suo aspetto antico facendo perdere valore all’opera stessa. Oggi, nel restauro moderno, si è superato l’inganno del restauro invasivo. Le opere mancanti vengono progettate su quelle antiche con elementi moderni leggeri con lo scopo voluto di creare già fin da subito una distinzione chiara e visibile dell’intervento nuovo dal manufatto antico. Questa terza via consente di non esasperare il concetto della conservazione naturale voluta da Ruskin, ma nel contempo preserva l’opera senza intaccare il suo valore, aumentando la sua vita nominale.

Splendido esempio di restauro per i Mercati Traianei a Roma

Va detto comunque che anche Viollet le-Duc considerava il restauro di allora una “necessità spiacevole” che doveva compiersi “il meno possibile”. Il francese lasciava la pratica del compromesso aperta, osservando la pratica del restauro come “necessaria”. Necessità che invece respingeva l’inglese a favore della vita, caratteristica del settimo e ultimo capitolo del saggio.
La vita di un edificio, per Ruskin, andava rispettata fino alla sua rovina.
La vera saggezza era, per chi aveva sensibilità umana sufficiente, possedere un edificio sapendo che questo possedeva vita propria e quindi un destino inevitabile che conduce alla lenta china.
Ecco dunque che tutelare la bellezza presente sia nella natura che nell’opera dell’uomo, è un’ azione necessaria per garantire la migliore qualità della nostra vita. Questa è la ragione essenziale della conservazione secondo Ruskin e qui non vi è certo bisogno di sottolineare la grande attualità del suo pensiero.
Natura e architettura del passato, intesa come visibile testimonianza di un mondo diverso, da recuperare, rappresentano il riferimento indispensabile per consentirci di scegliere consapevolmente un futuro in cui vi sia speranza di trovare la gioia di vivere da uomini “secondo natura” (Kata Phusin), motto ideale che ha guidato John per tutta la vita.
 
Per approfondimenti:
_John Ruskin, Editoriale Jaca Book, 1982
_John Ruskin, le pietre di Venezia, Mondadori 2000
_John Ruskin, Guida ai principali dipinti nell’Accademia di Belle arti di Venezia, Electa 2014
 
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