Il breve saggio che segue si propone di analizzare – senza pretesa di completezza né esaustività – come la dissoluzione dello spazio politico e culturale dell’Impero ottomano debba essere conosciuta e correttamente valutata per comprendere una serie di fenomeni storico-politici novecenteschi.
In particolare la storia della Turchia moderna è una miniera di insegnamenti per comprendere molti degli avvenimenti che ci coinvolgono in prima persona.
La storia dell’Impero Ottomano, dopo la presa di Costantinopoli, può essere divisa in tre periodi: espansionistico, fino alla morte di Solimano il Magnifico, nel 1566; di equilibrio, fino al fallimento della seconda spedizione contro Vienna, nel 1683; di decadenza, dal 1683 alla deposizione dell’ultimo Sultano Mehmet VI, nel 1922.
Affresco di Tintoretto risalente al 1580 che racconta la presa di Costantinopoli da parte dei turchi.
Costantinopoli capitale fu ribattezzata Istanbul, dalla locuzione greca εις την πολιν (“verso la città”).
Da questo momento, l’espansione ottomana a ovest sembrava inarrestabile. Mehmet II era ormai identificato come Fatih, il conquistatore, e in effetti, dal 1474 in poi, l’Impero proseguì verso l’Europa centrale, con il primo assedio di Vienna, nel 1529, ad opera di Süleyman II. Con lui, ricordato come Solimano il Magnifico o il Legislatore, l’Impero raggiunse anche il massimo della sua potenza militare, del prestigio internazionale e della razionalizzazione organizzativa interna.
Quest’ultima, infatti, si caratterizzò per essere largamente tollerante nei confronti dei paesi conquistati e persino liberale nel riconoscimento dell’uso pubblico delle lingue e delle religioni.
Dopo Süleyman II, ebbe inizio la decadenza, scandita da lotte interne tra monarca e corpo militare dei «Giannizzeri» (costituito sin dal 1334 da ex cristiani, rapiti da fanciulli ed educati all’Islam), dalla battaglia di Lepanto del 1571, dal secondo fallito assedio di Vienna, nel 1683, dalla Pace di Carlowitz del 1699, con cui gli Asburgo ottennero la sovranità sul Regno di Ungheria, dal Trattato di Passarowitz del 1718, sempre nel segno dell’espansione austriaca. Con quest’ultimo accordo l’alleanza austro-russa contro l’Impero ottomano decretò il nuovo equilibrio europeo, sfociato nella guerra del 1736, strenuamente combattuta dall’esercito ottomano, e nella pace del 1774, con cui la Russia conseguì, tra l’altro, il diritto di libera navigazione nel mar Nero e il passaggio della sua flotta dagli stretti per il Mediterraneo.
Tra Settecento e Ottocento, l’Impero ottomano visse una nuova fase di stabilizzazione, dovuta al clima inaugurato in Europa dalla Rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche, che permisero all’Impero ottomano, da un lato, di sentirsi tranquillo sulle proprie frontiere verso la Russia, e, dall’altro, di concentrarsi sull’ammodernamento militare e dell’amministrazione interna.
Il Congresso di Parigi, nel 1856, scandì una nuova fase dell’identità europea dell’Impero: l’integrità dei confini era salvaguardata, ma l’indipendenza riconosciuta alla Grecia e l’autonomia accordata alla Romania inaugurarono inedite lotte delle altre nazionalità per la loro separazione dal potere del Sultano. L’Impero ormai era in crisi e il processo di disgregazione irreversibile.
Lungo questa china fin de siècle, nacquero il movimento dei Giovani ottomani e l’ideologia dell’Ottomanesimo, mirata a ridimensionare lo sfaldamento dell’Impero attraverso un percorso di riforme nel richiamo alla grande tradizione ottomana. Le novità prodotte da questo movimento si sintetizzano in una formula: Tanzimat e Khayriyya o «leggi benefiche», avviate nel 1856, per indicare il complesso di disposizioni di riforma della giustizia, culminate nella Costituzione ottomana del 1876. Si trattò di tentativi coraggiosi di grande impatto formale, evocati anche in altri contesti musulmani come la Tunisia, ma di scarsa aderenza sostanziale.
Non meno contraddittorio si rivelò il movimento dei Giovani turchi. Creato clandestinamente a Istanbul nel 1889, il movimento si organizzò nel Comitato unione e progresso (Ittihad ve Terakki Cemiyeti) e si dichiarò erede dei giovani ottomani del 1876. Il movimento era composto prevalentemente da ufficiali dell’esercito, sotto la guida di Enver Bey, ma raccoglieva idee libertarie e socialiste collegandosi anche, tramite alcuni suoi affiliati europei, alla massoneria: per questo non si presentava con un programma ben definito e omogeneo.
Sul piano retorico, esso riecheggiava il «panturanesimo» o «panturchismo» che i musulmani dell’Impero ottomano avevano importato dalla Russia e le cui idee si sintetizzavano nella formula del ripristino del «focolare turco» (Türk Ocaği).
Invece, sul fronte istituzionale, due sembravano le rivendicazioni: il ritorno alla Costituzione liberale del 1876; il recupero del consenso delle minoranze non turche, di cui i Giovani turchi interpretavano le istanze autonomistiche dopo la crisi dell’unità ottomana.
Certo, le ideologie costituzionali di questa élite furono fortemente suggestionate da eventi esterni: le istanze rivoluzionarie russe, ideologicamente ben marcate; l’esempio giapponese, la cui modernizzazione era iniziata proprio dopo la vittoria sulla Russia ed era passata attraverso la costituzionalizzazione del potere; l’esperimento di monarchia costituzionale in Iran, del 1905-1906.
Il 23 luglio 1908, Enver Bey intimò al Sultano Abdül Hamid II, denominato «rosso» per la sua crudeltà sanguinaria, di ristabilire la Costituzione del 1876. Il giorno seguente il Sultano cedette e annunciò, in attuazione della ripristinata Carta, la convocazione di elezioni politiche generali.
La prima camera elettiva fu solennemente convocata e inaugurata il 4 dicembre 1908. In quei mesi, si organizzarono i primi sindacati e si verificarono i primi scioperi della storia ottomana.
L’obiettivo di coniugare la grandezza imperiale con la costituzionalizzazione del potere sembrò raggiunto. Invece, il 13 aprile 1909, Instabul fu scossa da una sommossa degli studenti di teologia che rivendicavano il ritorno alla legge coranica e le dimissioni del governo. Gli insorti non incontrarono alcuna resistenza e si imposero nella capitale.
Disorientati, i Giovani turchi trovarono rifugio a Salonicco per riorganizzarsi. Rientrato in Turchia, Enver riprese la marcia verso Istanbul proprio con l’aiuto delle armate di Macedonia e, il 24 aprile reintegrò nei poteri la Camera elettiva, riuscendo a far designare Mehmet V quale successore di Hamid.
In verità l’ammutinamento studentesco del 13 aprile aveva manifestato la debolezza congenita del movimento dei Giovani turchi: tradizionalismo e costituzionalismo non potevano essere semplicemente sommati attraverso imitazioni esterne e rievocazioni del passato. Il cuore dell’Impero dei primi anni del Novecento si scopriva «europeo» anche nel vivere il dilemma, determinante nella storia del costituzionalismo, tra riforma, tradizione e rivoluzione.
Intanto, il ritrovato sodalizio con il nuovo Sultano, in quanto caldeggiato soprattutto dall’esercito, produrrà due ulteriori effetti di lungo periodo: la emarginazione dei gruppi autonomistici delle periferie dell’Impero, originariamente vicini al movimento di insurrezione; la deviazione militarista dell’esperienza di rivendicazione costituzionale, con il conseguente abbandono di tutti i progetti di decentramento riformistico e il progressivo accentramento dei poteri, sfociato nel «triumvirato militare» di Enver-Cemal-Talat, avallato dal Sultano e legittimato con la elevazione di Enver al rango di Paşa.
Legato alla Germania dal trattato di alleanza del 2 agosto 1914, L’Impero ottomano entrò in guerra il 29 ottobre. La guerra, ancorché condotta sotto la direzione strategica di Enver Paşa, produsse un susseguirsi di disfatte, conclusesi con l’armistizio firmato a Mudros il 30 ottobre 1918. Le grandi potenze europee imposero lo smembramento dell’Impero, la confisca della flotta ottomana, l’occupazione di Istanbul da parte delle truppe dell’Intesa balcanica, l’affidamento dei territori a patti segreti per la suddivisione delle province imperiali, le Vilayet tra inglesi (Mossul e Mesopotamia), francesi (Siria e Cilicia), italiani (Koniya e Antalya). Il governo si trovò a non detenere alcun ruolo concreto, tant’è che il nuovo Sultano, Mehmet VI, compose un Consiglio di ministri senza Enver, agli ordini dei vincitori.
È in questo difficile passaggio che riemersero le istanze costituzionali, ancora una volta di confusa identificazione. Cellule del Comitato unione e progresso si ricostituirono lontano dalle città.
Fu proprio per stanarne la presenza che il Sultano inviò il giovane e valoroso ufficiale Mustafà Kemal a recarsi nella regione di Samsun. Gli esperimenti costituzionali insurrezionali questa volta tentarono forme di governo repubblicane e autonomiste, apertamente ostili al Sultano e al suo asservimento allo straniero. Nacquero così: il Comitato per la difesa della Tracia, in lotta contro le mire espansionistiche della Grecia; il governo per la Caucasia, separato dagli armeni, autoproclamatisi indipendenti.
In Anatolia, si insediò nel 1919 il movimento di resistenza armata «Associazione per la difesa dei diritti» (Müdaafayi Hukuk Cemiyetleri). Contemporaneamente si verificarono ovunque significativi moti contadini, tesi a sperimentare rudimentali forme di soviet.
All’arrivo a Samsun, Kemal si convinse della bontà di queste rivendicazioni repubblicane rispetto all’indifferenza della borghesia musulmana cittadina, economicamente interessata al mantenimento dell’occupazione straniera, e comprese che la disgregazione imperiale non era da imputare all’autonomismo, quanto alla totale sfiducia popolare nelle istituzioni centrali del paese.
Così, il 22 giugno 1919, Kemal lanciò il suo primo appello pubblico alla resistenza, invitando i militari a unirsi a lui e annunciando la convocazione di un Congresso nazionale a Sivas, rappresentativo di tutte le forze del territorio per ricomporre l’identità turca.
Subito dopo, il 23 luglio, approfittando della campagna di resistenza contro la costituzione della Grande Armenia, egli promosse l’Assemblea generale preliminare di Erzurum, finalizzata a fissare gli obiettivi del Congresso nazionale di Sivas: separazione degli interessi della Turchia da quelli dell’Impero ottomano; proclamazione della indivisibilità dei paesi turchi dell’antico Impero; indipendenza dagli europei.
Aperto a Sivas il 13 settembre, il Congresso si trasferì ad Ankara alla fine dell’anno.
Le proclamazioni di Sivas non mettevano in discussione il potere del Sultano. Infatti, l’opzione repubblicana non risultava ancora pienamente condivisa. In ogni caso, però, il Sultano si mostrò da subito ostile al progetto di Kemal, strumentalizzando contro di lui le sollevazioni autonomistiche dei curdi, mal viste dai partecipanti al Congresso di Sivas, spiazzando il suo progetto politico di unificazione nazionale con l’annuncio di elezioni politiche anticipate, evidentemente alternative all’Assemblea insediata ad Ankara, modificando, inoltre, la composizione del governo di Istanbul per renderlo meno filoeuropeo. In effetti, le mosse del Sultano disorientarono la strategia di Kemal. L’Assemblea nazionale non solo decise di trasferirsi a Istanbul contro il suo parere, ma accelerò inopinatamente il processo rivoluzionario, adottando un Patto nazionale che riprendeva senza mezze misure il programma di Sivas. Questo colpo di forza provocò una crudele repressione britannica: i lavori dell’Assemblea vennero soppressi e i deputati nazionalisti confinati a Malta. Il Sultano, dal canto suo, emise un Fètva, un decreto che dichiarava fuori legge tutti gli aderenti ai movimenti nazionalisti riconosciuti a Sivas. Kemal, che si era rifiutato di recarsi a Istanbul, sfuggì alla retata inglese e poté riorganizzare altre mobilitazioni che costringeranno a nuove elezioni, contro la volontà del Sultano. La partecipazione alla nuova consultazione popolare sancì la nascita del sentimento repubblicano turco: la nuova Grande Assemblea (Büyük Millet Meclisi) era a maggioranza nazionalista e repubblicana e inaugurò i suoi lavori il 23 aprile 1920, eleggendo suo presidente Kemal. Questi, sempre con l’appoggio soprattutto dell’esercito guidato dal colonnello İsmet (il futuro İnӧnü), nominò il primo governo nazionalista turco.
Il governo nasceva formalmente illegale al cospetto del Fètva del Sultano, ma sostanzialmente legittimo per il consenso ricevuto, tanto da vedersi di lì a poco riconosciuto a livello internazionale, con la partecipazione dei suoi membri all’armistizio franco-turco.
La politica nazionalista si misurò da subito con due diverse prospettive presenti tra i repubblicani: il cosiddetto «ideale occidentale» (Garb Mefkulersi), che avocava il recupero dell’esperienza delle Tanzimat; l’«ideale orientale» (Sark Mefkurersi), teso invece alla discontinuità su tutti i fronti, con il passato ottomano come anche con i valori occidentali dell’«asservimento imperiale».
Su quest’ultima prospettiva pesava certamente l’influsso ideologico della Russia bolscevica, che aveva appoggiato il movimento nazionalista nella sua triplice lotta contro il Sultano, gli alleati europei e gli armeni.
L’«ideale orientale» predicava la lotta contro l’imperialismo anglo-francese, ma sul piano delle proposte politiche si dimostrava piuttosto confuso. In ogni caso, Kemal reputò opportuno assecondare l’«ideale orientale», per non perdere l’appoggio popolare di quelle forze contadine che avevano contribuito non poco alla riuscita della rivolta nazionalista. Per tale ragione, egli provvide a creare un doppione islamico dell’Armata Rossa: l’Armata Verde (Yeşil Ordu), con funzioni di ordine pubblico e sicurezza sui confini. Questa Armata sfuggirà subito di mano al suo ideatore. In nome della lotta contro l’imperialismo europeo in Asia, i miliziani «verdi» predicavano l’eliminazione della proprietà privata e la distribuzione delle terre e delle ricchezze. Ma il «populismo» di Kemal mirava ad altro: riconoscersi in uno stato nuovo, sotto la cui guida promuovere giustizia e sviluppo.
Per la definitiva discontinuità dal passato, questa idea repubblicana doveva innanzitutto emanciparsi dalla legittimazione del Sultano. Con il Trattato di Sèvres, del 10 agosto 1920, cadde quest’ultima ipoteca. La sottoscrizione da parte del Sultano di condizioni palesemente umilianti per la Turchia, fece perdere ogni credibilità all’istituzione monarchica.
Con tale accordo l’Impero ottomano, già drasticamente ridimensionato col Trattato di Londra del 1913, si ritrovò ridotto ad un modesto stato entro i limiti della penisola anatolica, privato di tutti i territori arabi e della sovranità sugli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, che furono smilitarizzati. Ai greci fu assegnata nell’Asia minore la zona gravitante su Smirne, ai bordi meridionali della penisola anatolica erano previste zone d’influenza dell’Italia (golfo di Adalia), della Francia (Cilicia) e della Gran Bretagna (Kurdistan). L’Armenia fu riconosciuta come stato indipendente con i Vilayet di Erzerum, Erivan e Trebisonda. Dei paesi arabi, Siria e Libano andarono ai francesi, la Palestina e l’Iraq agli inglesi come “mandati” sotto il controllo della Società delle Nazioni (una forma speciale di neocolonialismo). Infine, l’esercito veniva esautorato di qualsiasi funzione decisionale. Fu proprio questo passaggio che colse a suo favore Kemal.
Il 20 gennaio 1921, egli propose l’adozione di una Costituzione provvisoria per la transizione definitiva alla repubblica laica, fondata sulla sovranità della nazione. Intanto, a «sinistra» dello schieramento kemalista forte dell’appoggio dell’Armata Verde, si affacciava la fronda estremista, che spingeva per la lotta di classe e la rivoluzione proletaria. A questo punto, Kemal richiamò l’esercito e decise di liquidare l’Armata Verde, promuovendo contro di essa un piano di attacco destinato a sortire importanti effetti : da una parte, verrà sancita la sconfitta dell’«ideale orientale»; dall’altra, l’esercito assumerà il ruolo di tutore istituzionale della identità repubblicana, ancora in costruzione; infine, si accentueranno le rivendicazioni greche a nord, grazie al ritiro delle truppe militari a Bursa per fronteggiare l’Armata. La ripresa del conflitto con la Grecia riavvicinò la Turchia alla Russia, fino alla firma del patto di amicizia sovietico-turco, del 16 marzo 1921, che consentì alla Turchia di risolvere anche il problema di una grande Armenia indipendente, di fatto consegnata all’Urss come repubblica sovietica.
Mustafà Kemal Atatürk (padre dei turchi) è stato il fondatore della nazione turca contemporanea, attraverso un’operazione complessiva di riformismo dispotico dall’alto che trova pochi altri precedenti storici (da Pietro il Grande in Russia ai primi del Settecento alla cosiddetta Restaurazione Meiji in Giappone dopo il 1868). È interessante (e non casuale) che sia stato un uomo nato e cresciuto nella Rumelia (a Salonicco, nella Turchia europea perduta nel 1913) a rifondare una Turchia largamente immaginaria e mitica nell’Anatolia, una zona geografica in cui prima del 1071 (battaglia di Manzikert) non abitava praticamente nessun turco, ed in cui per circa mille anni abitarono almeno quattro popoli principali (turchi, greci, armeni, curdi), più molti altri popoli minori (lazi, circassi, georgiani, arabi, assiri, eccetera). Il sogno europeo dei riformatori turchi dell’Ottocento, nato e cresciuto in Rumelia, venne trapiantato in un’Anatolia largamente immaginaria.
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