Un “giuramento vitruviano” per l’Italia Nostra

Un “giuramento vitruviano” per l’Italia nostra

di Giuseppe Baiocchi del 04/07/2016

L’eclissi della memoria incombe su tutti noi, minaccia la convivialità civile, insidia il futuro, toglie respiro al presente.

La città è la forma ideale e tipica delle comunità umane, l’Italia oggi deve esserne il simbolo supremo, ma se oggi il nostro paese dovesse venire meno bisogna cercare solo in noi stessi: nei politici, nei cittadini e nei tecnici, poiché oggi stiamo perdendo (lentamente, ma inesorabilmente) la memoria della nostra cultura, diventando ostili a noi stessi.

 

david donatello

 

L’art 9 della Costituzione Italiana sancisce:
La Repubblica promuove lo sviluppo della Cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico ed artistico della Nazione”.
In esecuzione del decreto legislativo n°85 del 2010 la norma del cosiddetto “federalismo demaniale” (firmata da “politici” del calibro di Calderoli, Berlusconi, Tremonti, Bossi, Maroni, Brunetta e Fitto) ha permesso di violare l’art.9 della Costituzione, con la diffusione (sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sul sito Agenzia del Demanio) di sterminati elenchi di beni pubblici con relativo cartellino di prezzo. L’elenco del Demanio datato 9 Dicembre 2010 enumera e prezza le proprietà inviolabili della nostra patria.
I perbenisti millantano che le cifre sono stabilite come mero valore inventariale nel trasferire ai Comuni le proprietà demaniali dello Stato. Purtroppo non è così: una volta passati ai Comuni la gran parte dei nostri beni diventa di fatto alienabile o disponibile a varie forme di privatizzazione. La stessa legge prevede infatti la possibilità di versare gratuitamente questi beni pubblici in fondi immobiliari di proprietà private, inoltre i comuni sono spinti in ogni modo a vendere o svendere i propri beni, tanto più che hanno l’obbligo di presentare ogni anno un “piano di alienazione immobiliare” allegato al bilancio di previsione.
Questi prezzi calcolati, trasformano l’Italia in un gigantesco supermarket immobiliare dove il mercato del capitale sovrasta gli individui, le istituzioni e la dignità del nostro popolo, rendendo questo provvedimento legislativo di una gravità eccezionali.
Ecco alcuni beni, per i quali bisogna battersi affinchè tornino invendibili e incalcolabili, poiché patrimonio di un’Italia sovrana:
_isola della certosa (Venezia) = 28.854.000 euro
_Monte Cristallo (Cortina) = 1.474.262 euro
_genio civile di Napoli = 14978, 541 euro
La domanda viene spontanea: perché? E soprattutto: quanto possono valere allora “la Divina commedia”, il De architectura di Vitruvio, o ancora le opere musicali di Verdi?
Con la legge Calderoli, beni che erano di tutti gli italiani vengono dati in proprietà ai singoli comuni, borseggiando tutti gli altri. Continua così il processo di smantellamento dello Stato (in atto da almeno due decenni) e la barriera del demanio inalienabile è un attributo essenziale alla sovranità popolare e oggi questa sta venendo meno gettando al macero la Costituzione.
In questo articolo, non importa seguire questa bizzarra notizia di cronaca, i commenti e il rapido oblio in cui tutto è come sempre caduto: importa, che questa metodologia sia stata presa sul serio. Città come Roma, Torino, Firenze, Venezia, Palermo non devono avere prezzo. Conservare e non distruggere, è dunque, almeno in Italia anche un tema della legalità.
Nei paesi scandinavi si è diffusa la becera usanza del “theme parkes” favorendo pratiche “conservative” assai curiose: demolire interi villaggi e rifarli a nuovo smontandone però alcuni edifici “tipici” per rimontarli altrove, un artificiale assemblaggio con altre case e chiese di altri villaggi.
Si stima che il Norsk Folkemuseum di Bygdo presso Oslo (Norvegia) dopo l’indipendenza norvegese del 1905 oggi contenga più di 150 edifici prelevati in tutto il paese. Questo metodo praticato anche negli Stati Uniti ed in parte anche in Germania (Gutach, Neuhausen ab Eck) e Russia (Kalomeskoe e Kizi in Carelia) sta diventando un cancro della memoria dei popoli dove l’architettura diventa un inganno e un simulacro. L’Italia deve difendersi da questa pratica aberrante.
Proprio come Bygdo il compito di educare alla conoscenza del passato viene affidato ad un villaggio che nel passato non è mai esistito.
In un drammatico capovolgimento di pratiche e di valori il Theme park non riproduce il passato, ma orienta un futuro che attua una distruzione della tradizione: anziché replicare l’aspetto plausibile di un centro urbano si adottano in blocco una forma urbis aliena e remota, quella di una città di tipo americana. Dio non voglia che arrivi in Italia, ma come detto sopra, la disgregazione artistica/architettonica è da tempo iniziata.
Le città italiane sono diverse una dall’altra ed è proprio questa diversità che rende unico il nostro territorio e che fa della forma-città la più importante, varia e promettente creazione culturale della civiltà italiana. Nella tradizione nazionale il margine urbano fu legato per secoli alle mura cittadine, ma la distruzione di queste tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento ha provocato un drammatico ribaltamento di prospettive producendo intorno alle nostre città informi periferie che si allargano indiscriminatamente senza progettare un nuovo margine, una progettazione non ragionata che in una morsa mortale abbraccia i centri storici, i quali attraverso una speculazione edilizia ragionata e terribile si svuotano di abitanti, soprattutto di giovani, i quali vivono sempre più nella città compatta e diffusa.
I manufatti svuotati dei centri storici, vengono riconvertiti spesso con sventramenti (che non nutrono il benchè minimo rispetto per la storia del palazzo) in lussuosi alberghi facendo diventare alcune città italiane (come Firenze, centro-storico di Roma, Venezia e molte altre) dei non luoghi, ovvero spazi dove la cittadinanza viene rilegata ad accessorio di un bel vestito, emarginata e rassegnata. Nel frattempo anche gli edifici statali inviolabili con la norma del “federalismo demaniale” di Calderoli vengono venduti a ricchi stranieri che sganciano danari usando l’abitazione/villa sei giorni l’anno. Questo travaso di popolazione stravolge il mercato creando un sistema di prezzi che espelle gli italiani dai loro centri storici (nella mia città: Ascoli Piceno, in maniera minoritaria rispetto a casi ben più gravi, questo fenomeno è già avvenuto con una costante diminuzione della popolazione dai centri storici, che oggi sembra essersi fermata parzialmente).

Ma il popolo italiano non è quello dei turisti, nemmeno dei più attenti, né di quello dei ricchi mecenati stranieri. Le città italiane sono state sempre composte dal sangue vivo degli uomini e delle donne che commerciano, passeggiano, pregano nelle nostre città storiche. Città come Venezia, ad esempio, rischiano di rimanere senza popolo con un economia capitalistica/atlantista che esilia i nativi del centro storico e lega alla mera sopravvivenza chi decide di restare.

 

 

Emblematico il caso abruzzese dell’Aquila da non dimenticare: come molte città l’Aquila nasce dalla confluenza, intorno al 1250, dei Castelli d’Abruzzo i quali vollero darsi una più vivace organizzazione fondando una nuova città, dando vita al termine sinecismo (processo di aggregazione).

Oggi l’Aquila dopo il terremoto non esiste più: la sua storia devastata per sempre non dal terremoto, ma dagli uomini. Nel passato i terremotati venivano inseriti in ripari temporanei avviando immediatamente la ricostruzione della città in rovina. Nel capoluogo di regione abruzzese si è fatto il contrario: si è svuotata la città storica “abbandonandola al suo destino” e le si è costruita intorno una cintura di 19 città-satellite, centri non-urbani dove non vi è un bar, una piazza, una chiesa, una scuola, una biblioteca, non un luogo di incontro. Quartieri dormitorio li chiamano, sorti in fretta su terreni agricoli con appartamenti dati in comodato d’uso agli sfollati a prezzo di non rivedere mai più le loro case. Questa è amputazione della memoria di un popolo.
L’obiettivo della società capitalistica, la quale non rispetta né la dignità, né la cultura dei popoli a beneficio del solo profitto venale, vuole l’abbandono dei centri storici costruendo “nuove e moderne Theme Park” dei non-luoghi, delle non città.
Simbolo imperante di questa ideologia è il grattacielo. Una retorica d’accatto, tutta italiana (massimo rispetto per la forma urbanistica americana, la quale ha una ragione d’essere per la sua storia) identifica il progresso sociale e il benessere individuale con questa icona architettonica di matrice statunitense.
Un affonoso inseguimento, si sforza di bilanciare in fretta l’ansia di essere rimasti indietro rispetto al “sogno americano”. La voluttà di copiare prende il posto della gioia di creare, svalutando la fedeltà del nostro io culturale.
Nella nostra storia non mancarono esperimenti di costruzione verticali. La Roma imperiale ebbe caseggiati alti fino a otto e dieci piani che non superavano i 25/30 metri di altezza.
Ancor più alte furono nel Medio Evo le case-torri (S.Gimignano in Toscana ottimo esempio) alte fino a 54 m o a Bologna fino a 97 m.
L’altezza aveva però una ragione, sempre: per difesa e per prestigio. Voglio citare l’esempio senese con la “torre del Mangia” che fu costruita nel 300 accanto al palazzo del comune, calcolandone l’altezza (88 m.) in modo tale che pur partendo da una quota più bassa la cima raggiungesse quella del campanile del Duomo per affermare simbolicamente l’equivalenza dei due poli del potere.
Le torri in Italia incarnano l’identità civica e la dignità del vivere urbano con molte torri e campanili scelti, con apposite norme municipali, come misura limite dell’altezza massima consentita:
_a Siena la Torre del Mangia
_a Modena la Ghirlandina
_a Roma la cupola di S.Pietro
_a Milano la guglia più alta del Duomo
_a Torino la Mole Antonelliana
Misure convenzionali, certo, ma non arbitrarie perché incarnavano un’etica della città, un suo rispetto intrinseco, un urbe capace di pensare se stessa. Non è più così.
A Roma, già l’ex-sindaco Alemanno dichiarò: “è il tempo di rompere questi tabù” abolendo l’antico vincolo in cui nulla poteva superare la cupola di S.Pietro (133 m.) e propose, con la scusa della modernità, di circondare Roma con una “cintura di grattacieli” per densificare gli insediamenti, “inspirate alle torri medievali che punteggiano il centro di Roma”. Il ricordo di una architettura storica viene dunque strumentalizzato per aggredire il centro storico che i nuovi ricchi potranno “dominare dall’alto”.
Secondo il mio parere l’architettura deve rientrare nelle regole del rispetto della memoria storica di un luogo e sì, può violarne alcune regole, ma sempre con un dialogo e una sensibilità e non facendo finta che queste non siano mai esistite.

Questo contegno antico è stato spodestato dalle logiche-illogiche dell’economia capitalista portando troppo spesso l’architetto alla mercificazione della sua anima, della sua etica professionale.

 

Vitruvio Pollione

 

Nel 2015 come può l’architetto ritrovare un’identità? Come può tornare ad essere una mente ben pensante? Sicuramente dai padri fondatori dell’architettura, che ancora una volta ci possono venire in soccorso da epoche lontane, ma con ideologie attualissime. Bisognerebbe come per i medici, creare un “giuramento di Ippocrate” rimandando alla figura di Vitruvio i valori fondamentali dell’architetto, almeno quello italiano, il quale per storia e patrimonio deve sentire la responsabilità addosso di una professione così cruciale nel nostro paese.

Il De Architettura di Vitruvio deve tornare nell’ambito universitario poiché si deve ripartire dalle accademie del pensiero. Cito uno stralcio del I libro (dei dieci, rilegati in due tomi, dal costo sicuramente troppo elevato per uno studente) di Vitruvio Pollione sulla descrizione in età classica dell’architetto:
utilitas, firmitas, venustas (…) La scienza dell’architetto richiede l’apporto di molte discipline e di conoscenze relative a svariati campi. Egli dev’essere in grado di giudicare i prodotti di ogni altra arteLa sua competenza nasce da due componenti: quella pratica, che è la costruzione (fabrica), e quella teorica (ratiocinatio).
La fabrica consiste nell’esercizio continuato e ripetuto dell’esperienza costruttiva, che si concreta quando l’architetto di sua propria mano, sulla base di un disegno progettuale, realizza l’edificio desiderato. La ratiocinatio consiste nella capacità di esporre e spiegare gli edifici, una volta costruiti con debita diligenza, secondo computi matematici e proporzionali.
Perciò gli architetti che costruiscono senza una cultura adeguata non hanno un esito corrispondente al loro sforzo; mentre quelli che si impegnano sulla sola teoria inseguono un’ombra, e non la realtà. Solo chi padroneggia sia la pratica che la teoria è dotato di tutte le armi necessarie e può conseguire pieno successo (…) L’architetto deve dunque avere ingegno naturale ma anche sapersi sottoporre alle regole dell’arte (…) Deve avere cultura letteraria, essere esperto nel disegno, preparato in geometria e ricco di cognizioni storiche; deve avere nozioni di filosofia e di musica, saper qualcosa di medicina e di diritto, ma anche di astronomia e astrologia“.
Per ciascuna delle virtù intellettuali (e delle competenze) Vitruvio dà poi un’articolata motivazione. Parla di “ottica” intesa per poter determinare la distribuzione della luce negli edifici, per “nozioni mediche” intende lo studio climatico e della salubrità del manufatto, mentre per filosofia intende l’essere generoso a discapito dell’avidità economica e moralmente integro. Potremo prendere una per una tutte le caratteristiche dell’architetto vitruviano facendone un “giuramento di Vitruvio”. Se chiunque costruisce in Italia avesse fatto un simile giuramento e vi tenesse fede, nessuno avrebbe osato mai edificare numerosissime abitazioni ad un passo dalle più velenose discariche della Campania, o a edificare un ponte moderno nella Serenissima Venezia che non ha alcun rispetto ne statico, né stilistico, con le caratteristiche del luogo.
Il giuramento di Vitruvio permetterebbe di ristudiare la storia dell’Architettura in maniera più approfondita, poiché non vi può essere architetto che non conosca il gotico veneziano o la sezione aurea; sembra quasi che nelle nostre facoltà italiane la memoria storica del nostro passato sia un peso gravoso di cui liberarsi per vivere in uno smemorato presente.
Dunque un etica dell’architetto che rimandi alle figure di Vitruvio e Palladio oggi può e deve tornare “di moda” sostituendo testi come quello di Venturi o Koolhaas, sì importanti, ma sicuramente eticamente meno formanti.
La domanda finale arriva in maniera abbastanza veloce a questo punto: chi sta uccidendo le città storiche? Chi le circonda di periferie senza anima? Chi sventra i palazzi storici per lottizzare gli spazi?
Sono i titolari della politica corrotta, che con il servilismo politico ricoprono cariche senza meriti, sono costruttori e speculatori edilizi, sono le mafie che investono e sono purtroppo anche i tecnici: architetti, geometri, ingegneri che per un discorso crematistico hanno mercificato la propria etica professionale… eppure ogni critica è messa a tacere dal ricatto delle grandi firme, dagli “archistar” (come amano chiamarsi) e all’elogio della retorica della modernità ha scapito della cultura, della tradizione, dell’etica e della comunità.
Concludo questo articolo con uno stralcio del grande scrittore Leo Longanesi:
La miseria è ancora l’unica forza vitale del paese e quel poco/molto che ancora regge e soltanto il frutto della povertà: bellezza dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custoditi soltanto nella miseria… queste virtù civiche e artigiane sono custodite soltanto dalla miseria, dove essa è sopraffatta dal sopraggiungere del capitale ed ecco che si assiste alla completa rovina del patrimonio artistico e morale, perchè il povero è di antica tradizione e vive in una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi, mentre il ricco è di fresca data, improvvisato, nemico di tutto ciò che lo ha preceduto e che lo umilia. La sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall’imbroglio da facili traffici, sempre o quasi imitando qualcosa che è nato fuori di qui, perciò quando l’Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga, noi ci ritroveremo a vivere in un paese di cui non riconosceremo nè più il volto, nè l’anima“.
 
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