01 Lug Tradizione sì, tradizione no, tradizione forse
di Riccardo Tarantelli del 01/07/2016
Nel XXI secolo, siamo arrivati ad un punto che l’uomo ha sempre sognato: la (semi) coscienza di sé. Questo, purtroppo, si accavalla con un altro fenomeno: la modernità. Gustave le Bon, nel suo “psicologia delle folle” (un libro che lo avrebbe consegnato nel pantheon della sociologia, e uno dei primissimi studiosi dei fenomeni di massa), descriveva la tradizione come un collante fondamentale per l’unità nazionale.
Da qui, si può discernere l’attenzione che lo studioso poneva nella concettualizzazione, e quindi nella presa di coscienza, che le tradizioni possano avere su di un popolo (o nazione, come lui esprimeva).
Sicché, continuava, queste tradizioni venivano bruscamente interrotte da eventi nefasti: le rivoluzioni. Come indica la parola stessa, la rivoluzione rappresenta un drastico cambiamento di rotta: una rinnovata élite che imprime una nuova visione (o escatologia, fine di essere), creando così un homo novus. Forse, nella mente del sociologo francese, era ancora vivo il ricordo della rivoluzione francese e del terrore giacobino che insanguinarono la Francia monarchica e profondamente cattolica (Le Bon nacque nel 1841).
Nel dibattito odierno, vi è un enorme starnazzare –alquanto confuso- sul cosa siano le tradizioni e sul come mantenerle. Le tradizioni non si mantengono imponendosele. E neanche seguendole soltanto come un obbligo morale o, peggio, storico.
Innanzitutto bisogna capire cosa è una tradizione. Una tradizione non rappresenta altro che la trascendenza di un popolo (o nazione), che altro non è la riproduzione astorica (ovvero riprodotta non perché in passato era buona norma conformarvisi, ma perché era, asceticamente parlando, la miglior strada da seguire) del popolo stesso e del suo passato metafisico. Ci si potrebbero perdere intere giornate ad elencare i maestri del pensiero tradizionale (non tradizionalista), ma sarebbe come darsi una zappata sui piedi: riconoscendone il carattere storico, la tradizione diventa semplicemente una cosa che, in un modo o nell’altro, ci si sente costretti a seguire per un qualche obbligo di tipo morale, che è quello che sta grosso modo succedendo adesso. Lo stato comunitario senz’altro avrebbe potuto aiutare in tempi remoti, ma questa condizione non si applica più (cfr. Zygmunt Bauman, “La società liquida”).
Sarebbe la liquidità con cui la comunità si è andata a disarticolare, che avrebbe fatto perdere valore alle tradizioni: tradizioni che difficilmente potrebbero sopravvivere nell’odierno contesto pluralistico. Le Bon scriveva: “Cambiate o sarà la fine!”, fatalistico, ma, forse, con un fondo di verità.
Le tradizioni esistono nelle vestigia che noi, e i nostri avi, gli abbiamo conferito nelle epoche passate, e non senza “ammodernamenti” o cambiamenti.
Il colpevole sarebbe da ricercare nella zelante introspezione storica (realistica, realmente accaduta) che si vuol dare agli eventi. Materializzando così quello che fu, e “orizzontalizzando” il piano verticale –come cantava Franco Battiato-. Sicuramente il tracollo delle tradizioni (intese in senso verticale) è anche da ricercare sia nella componente materialistica odierna (sia in senso spirituale, che commerciale). Un materialismo che, erodendo la componente comunitaria, ha pesantemente edulcorato quella tradizionale, tradendo così il carattere ascetico della stessa.
E’ possibile tornare alla “tradizione”? E’ possibile, dal mio punto di vista, ridare un senso alla tradizione. Tradizione che, sicuramente, non potrà mai partire senza un rinnovato senso comunitario il quale, paradossalmente, passa anche tramite il senso di tradizione stesso.
Fonte: associazioneculturalecastrumpeligni.wordpress.com
Bibliografia:
_Zygmunt Bauman “Società liquida”
_Gustave le Bon “Psicologia delle masse”
_Franco Battiato “Inneres auge”
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