Bellezza e verità

di Arturo Verna del 01/07/2016

Bello è ciò che attrae, ciò verso cui ci si dirige per il suo solo essere: il bello quindi non coarta perché fa essere il movimento gravitazionale verso di sé (l’eros), quindi è buono, ma senza necessitarlo, lasciando libero di seguire la sua chiamata colui al quale si rivolge.
Ma, in quanto attrae, anche distrae: essendo il desiderabile (ciò che suscita il desiderio di sé), fa, per ciò stesso, fuggire l’opposto, che appunto è quel che non si desidera ossia quel che si desidera che non ci sia: il bello è indice di se stesso e del brutto.
Il desiderio del bello è desiderio di possederlo e, come tale, implica mancanza: si desidera possederlo perché non lo si ha e senza di esso non si è interamente (non si è quel che si deve).
Sicché lo si desidera per essere: solo possedendolo si riesce ad essere come si desidera. Per ciò stesso, ci si affanna per possederlo nulla tralasciando per raggiungere lo scopo: il bello inquieta.
Ma, eo ipso, desiderare di possedere il bello non significa pretendere di ridurlo a proprietà, a ciò di cui si può disporre a piacimento, perché appunto si è in virtù del bello sicché lo si possiede come si desidera se ci si immerge in esso perdendovisi. Pertanto, è giusto dire che “bello è ciò che piace” perché nel bello sta il piacere (il sentimento di soddisfazione di sé) cioè perché il bello produce godimento ed è per questo che ci attrae: noi, appunto, lo desideriamo per il piacere che procura.

Senza piacere, non c’è bellezza. Ma, se con quella formula si intende che, poiché del bello proviamo piacere, siamo noi a determinare la bellezza, si erra perché, lungi dall’essere il bello una conseguenza del nostro piacere, noi siamo il piacere che la bellezza procura, sicché la bellezza non è per noi ma noi siamo per la bellezza: l’esperienza estetica è, senz’altro, nostra, ma, come tale, è un’esperienza ec-statica.
Poiché bello è ciò che procura piacere e possedendolo ci sentiamo soddisfatti di noi stessi, la bellezza è sensibile: possedendola, la sentiamo mediatamente quale oggetto di piacere, come ciò che provoca il nostro godimento. Una bellezza non sensibile non è bellezza affatto perché il bello è il piacevole e il piacere è sensazione. Ma che la bellezza sia una sensazione (mediata) non la circoscrive al mondo della sensibilità, perché la sensazione della bellezza non dipende dalla sensazione: la radice della bellezza, che pure appare ai sensi, non è sensibile. In altri termini, bello è ciò che sentiamo tale ma ciò che sentiamo bello si impone ai sensi da sé: viene sentito, sicché ha espressione nei sensi, ma non vi si riduce, non perché possa avere altre espressioni ma perché, pur esprimendosi nei sensi, non dipende dai sensi nei quali si esprime. Così, la bellezza è forma a priori della sensibilità perché ciò che i sensi avvertono come non bello è determinato dalla (più o meno graduale) mancanza di bellezza: la bellezza, non dipendendone, fa essere tutte le sensazioni.
La bellezza, dunque, è espressione sensibile. Ma cosa vi si esprime? Poiché l’espressione della bellezza non dipende dai sensi, cioè poiché, pur essendo sensibile, la bellezza non è una nostra rappresentazione, ciò che vi si esprime deve essere quel che esiste indipendentemente da noi. Ma ciò che esiste indipendentemente da noi è ciò che esiste per se stesso: perché, se esistesse per un altro, sarebbe per noi, dovendo questo altro, da cui si distingue, essere qualcosa per noi. Ciò che esiste indipendentemente da noi esiste in sé e per sé. La bellezza ne è, appunto, espressione sensibile, il suo autonomo (spontaneo) rivelarsi ai sensi: la bellezza è la forma che, per esprimersi e darsi sensibilmente a noi, assume ciò che esiste indipendentemente da noi. Ma questa forma non è un abito esteriore sibbene il suo contenuto, perché, come tale, non è altra da esso: l’espressione rivela. Di conseguenza, la bellezza illumina (dà luce a) ogni cosa perché l’essere che rivela è ciò in virtù di cui ogni cosa è. Ciò che esiste per se stesso non può essere diverso da quel che di volta in volta è: esso è sempre come deve, conforme a se stesso. Ma quel che è conforme a ciò che deve è il vero: la bellezza è, quindi, espressione della verità e, per ciò stesso, la tradizione la definisce negli stessi termini di questa, come conformità; il bello è il conforme (non a noi ma in se stesso), il brutto il difforme (non a noi ma in se stesso). Orbene, il vero non è sensibile, nel senso che non ha radice nella sensibilità.
Ma ciò non vuol dire che abbia una diversa radice, perché è la radice di tutto. In quanto tale, attraversa ogni cosa (ogni ambito) non risolvendovisi, perché appunto, come principio di tutto, deve essere dappertutto senza essere “qualcosa”: la verità è trascendentale. Sicché il vero, che non è sensibile, non può non darsi nei sensi e, appunto, vi si dà nella forma della bellezza. Così, Bellezza è verità; ma non vale la reciproca, cioè non si può dire che Verità è bellezza, perché ci sono infinite altre forme che la Verità può assumere, cioè perché la Verità può esprimersi in infiniti modi: la Verità non si risolve nella bellezza in cui esteticamente (nei sensi) si rivela. Invece, la bellezza si risolve nella verità che, rivelandosi a noi in questa forma, chiama alla sua intelligenza. Quindi, la bellezza va goduta ma goderla (veramente) significa predisporsi a comprenderla: il godimento del bello è solo il primo momento cui deve seguire la penetrazione della Verità che vi si manifesta,perché appunto il bello rinvia al vero come sua radice e limitarsi al puro godimento (edonismo) significa perderlo. Senza Bellezza non c’è verità ma senza Verità non c’è bellezza sicché nel suo godimento non si può sostare.
La Verità che si esprime nei sensi come bellezza vi si esprime grazie all’arte. Perché l’espressione richiede un mezzo e il mezzo con cui si rende accessibile ai sensi ciò che già è i greci lo hanno chiamato tecne, appunto arte. La tecne ha questo di proprio, che produce ciò che è già presente alla mente ossia rende “sensibile” quel che è già dato ma solo al pensiero: sicché la tecne si prefigge non la costruzione ma l’accessibilità della cosa che, appunto, non produce ex novo ma riproduce in ambito extramentale. La Bellezza, quindi, è opera dell’arte cioè è l’opera d’arte. Sicché le regole del giudizio di gusto, cioè il criterio in virtù di cui giudichiamo bella una cosa, sono le opere d’arte:
ogni giudizio di gusto (lo si sappia o no) è giudizio di conformità ad esse e, quindi, quanto più se ne ha conoscenza tanto più si ha capacità di giudicare circa la bellezza delle cose. Il che anche significa che la bellezza non esiste in natura come una sua “opera”: quella cosiddetta “naturale” è bellezza per assimilazione, perché per analogia in un determinato caso la natura viene assimilata all’arte.
Per ciò stesso, l’opera d’arte non è opera di un individuo ma della Verità che agisce in lui e guida la sua mano: «E io a lui: “I’mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando.” » (Dante, Purg. XXIV vv. 52-54). L’opera d’arte è la messa in opera della verità ma a mettere in opera la verità non è l’artista sibbene la verità per il tramite dell’artista. L’artista produce l’opera e a ciò può essere indotto da motivazioni personali ed estrinseche. Ma, anche nell’atto in cui la produce per un committente che gli impone il soggetto, la produce nel modo in cui “sente” di doverla realizzare e non in altri; ossia, nell’atto in cui realizza l’opera è libero dai condizionamenti perché la realizza come deve cioè come intuisce che sia il soggetto di cui trattasi. L’artista, quindi, agisce nell’intenzione di realizzare nella sua opera la verità (ciò che egli ritiene tale). E, poiché la realizza con questa intenzione (cioè nell’intenzione che sia conforme a ciò che, secondo lui, è quel soggetto in se stesso), l’opera riesce se la sua intenzione viene soddisfatta: cioè, per la stessa intenzione con cui viene realizzata, un’opera non è d’arte se non realizza Emoticon smile se non mette in opera) la Verità. Ma, per ciò stesso, a realizzare l’opera è la Verità: l’artista la produce sospinto da bisogni ma, ciononostante, l’opera sorge da sé, perché nell’atto in cui la produce i bisogni che ne determinano l’apparire non fungono più. Funge solo ciò che l’artista deve mettere in opera. E’ quindi del tutto lo stesso dire che un’opera è opera d’arte o che è opera della Verità, perché appunto nell’opera d’arte, per la sua stessa intenzione, è messa in opera la Verità.
La domanda che cos’è la verità di un’opera è quindi la stessa domanda se realizza la verità cioè se riesce nella sua intenzione: la domanda cerca quindi di sapere se essa è veramente opera d’arte. Ma, poiché ad operare non è lui ma la Verità, all’artista non è necessario conoscere la Verità della sua opera. Anzi, quanto meno la conosce tanto più riesce come artista perché, se non si limita a “fare” la sua opera e la vuole invece pensare, non la fa e, quindi, viene meno come tale.
L’artista non sa cosa fa e non deve saperlo: è, appunto, artista in quanto “sente” la Verità, perché la avverte interiormente. Sicché l’artista, come tale, non può porre la domanda circa la verità (la riuscita) della sua opera: la sua, nell’atto in cui la realizza, è immediatamente un’opera d’arte.
Ma l’opera d’arte è bene conoscibile in se stessa: il luogo di questa conoscenza è la storia dell’arte (rectius, delle arti figurative, della letteratura, del cinema, ecc.) in quanto storia della Verità nel suo apparire cioè storia dell’apparire della Verità.
 
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