30 Giu La mutazione della Turchia (4)
di Francesco Di Turi del 30/06/2016
Quando si parla di “storicità” un termine che riprendiamo da Heidegger, intendiamo nient’altro che la concentrazione attiva e sempre operante di tutte le esperienze che forgiano un determinato popolo, uno specifico individuo nella sua irripetibile unicità, o una particolare comunità religiosa. Essa è cosa diversa dalla mera «storia» di ognuno di essi. É per questo che nei contributi pubblicati si usa questo termine in alcuni contesti. Lo «storia di un popolo», infatti, così come il suo studio, è solo un passato messo a disposizione di ognuno, o per intrattenere la curiosità di qualche studioso, o perché si accresca qualche nozione e conoscenza astratta sulle vicende di quel determinato popolo. La «storicità di un popolo», al contrario, non è mai declinabile come «studio», non è qualcosa che possiamo maneggiare con le nostre mani e le nostre menti; essa è carne viva, agisce al di là di ogni volontà di manipolazione e non ha nulla a che vedere con la conoscenza, la cultura o il sapere; è, semmai, un fenomeno che sempre accompagna le individualità e le comunità. Verso di essa ciò che conta non si valuta sul piano della conoscenza bensì su quello dell’adesione o meno al senso di questa «storicità».
L’esperienza della grande religione islamica si rivela essere ciò che essa è già stata e ciò che è in quanto sua propria «storicità»: un’esperienza religiosa dal forte «spirito guerriero» (Giovanni Paolo II) capace di esprimere ancor oggi una direzione storica che, in fin dei conti, aveva subito solo una battuta d’arresto egemonica, nella sua forma a partire dalla fine della esperienza sultaniale turco-ottomana (1924), nella sua sostanza già con il concludersi del XVIII secolo. Riconoscere questo dato non significa, ovviamente, né disconoscere i tanti elementi di positività culturale e neppure attuare un semplicistico e gretto riduzionismo della complessa natura dell’Islam in funzione della sua espansività o aggressività. L’esperienza spirituale islamica è troppo ricca e feconda perché si sia giustificati nell’operare un simile riduzionismo.
Sottolineare e marcare oggi lo “spirito guerriero” dell’Islam in funzione della sua storicità significa solo ricollocare sul suo giusto piano storico una grande esperienza politica e religiosa la quale pensa, ad esempio, il senso di un’espressione linguistica qual è «jihad» («sforzo», «lotta»), in forme più o meno spiritualizzate e più o meno rese operanti nella loro bruta letteralità, e ciò a seconda dei momenti storici in cui essa si colloca, al grado di aderenza alla rivelazione coranica quale diretta emanazione divina, nonché all’effettiva praticabilità storico-politica della propria missione religiosa. Sarebbe infatti necessario ed utile attuare una meditazione approfondita rispetto alla specifica natura che la questione del «linguaggio» presenta nell’Islam; ci condurrebbe su sentieri decisivi per comprendere la natura di alcuni fenomeni provenienti da questo mondo e non solo da questo; perché, quando si parla in questa sede di rifluire storico, non si fa riferimento ad una semplice opzione teorica, ma si intende un fenomeno che agisce realmente, non in senso astratto ma concreto, proprio nelle modificazione dei dispositivi di senso linguistici, nella creazione di ordini del discorso nuovi che si pongono in strutturale connessione con l’epoca nascente da cui il nuovo linguaggio emerge a partire dalla provenienza storica analogica che ritorna.
Bene, un esempio eminente di quella che abbiamo chiamato nel precedente contributo la “tempesta storica perfetta” seguita alla caduta dell’Impero sovietico è quello della Turchia.
L’ordine mediorientale seguito alla fine della Grande Guerra è dunque dissolto. Gli Stati costruiti a tavolino dalle Potenze europee sono in via di disfacimento mentre il nuovo ordine (per ora solo disordine) è la posta in gioco dei conflitti oggi in atto in quegli spazi geopolitici.
Cosa significa tutto questo per la Turchia?
La considerazione da cui partire è quella che indica il coincidere del dissolvimento dell’ordine mediorientale con il dissolvimento all’interno della storia turca di quasi un secolo di kemalismo.
Questi due fatti storici non possono e non devono essere tenuti separati poiché sono nient’altro che un unico e medesimo fenomeno.
Al defluire storico della sua vita, la dissolta potenza turco-ottomana, grazie a Mustafa Kemal (questo dömne di Salonicco più tardi proclamato «Atatürk», padre dei turchi), uno degli uomini più geniali, ambiziosi e rivoluzionari del XX secolo, ha operato una modificazione dei propri connotati fondamentali attuando, in quello che era stato il cuore pulsante dell’unità islamica sotto l’egida della fu Sublime porta (Costantinopoli), un processo di laicizzazione e di occidentalizzazione radicale su tutti i piani e a tutti i livelli: cambiamento dell’alfabeto da quello semitico arabo a quello latino occidentale; abolizione del califfato; proibizione del velo islamico per le donne; eliminazione di ogni influenza religiosa islamica nel diritto; proibizione per gli uomini di portare barba e baffi; divieto d’indossare il famoso copricapo turco, il Fez; proibizione dell’uso della grande moschea di Santa Sophia, già Basilica cristiana, per qualsiasi uso religioso.
Questo solo per citare alcuni dei provvedimenti che segnarono la nascita della nuova Turchia dalle ceneri del sultanato Ottomano.
Ebbene, oggi è la stessa rivoluzione kemalista che è messa di fatto in discussione da un corso politico islamista al potere ormai dal 2002 che conta notevoli successi economi e consenso ampio della popolazione. Anche per la Turchia vale lo stesso che si è detto in riferimento a qualsiasi altro popolo.
Il corso islamista rappresentato dalla politica di T. Erdogan, proprio perché si situa in un’esperienza storica come quella della Turchia kemalista – formalmente ancora operante ma sostanzialmente ormai defluita, dissolta – che così a fondo aveva modificato il vecchio corso turco-ottomano è un ottimo esempio di ciò che si intende con il concetto di «analogia sostanziale del rifluire storico». Non vi è e non vi sarà in Turchia, ovviamente, un ritorno sic et simpliciter alla situazione storico politica turco-ottomana, certo; più concretamente è in atto un riflusso che si pone con essa in termini di sostanziale analogia.
Si prenda il nuovo ricollocamento geopolitico turco. Ormai, la Turchia, non guarderà più nei fatti e con gli stessi occhi all’integrazione politica con l’Unione Europea. Questa modificazione politica accadrà, accade, proprio perché si riscoprono caratteri storici, una propria storicità intrinseca, che va ben al di là delle pur rivoluzionarie e profonde modificazioni kemaliste e che, inevitabilmente, la riproiettano come potenza di primissimo piano nello scacchiere mediorientale, con caratteri non dissimili, sostanzialmente analoghi, a quelli vigenti quanto meno alla fine del XIX secolo: l’esatta provenienza storica che in senso analogico oggi in quel territorio rifluisce. La politica interna, ma direi soprattutto la politica culturale della Turchia dell’ultimo tredicennio ha oggettivo successo perché intercetta, governandola, una dinamica storica che, nell’attualità propria e regionale, refluisce da un passato vivo, ancora capace di proiettarsi positivamente verso il futuro. Nel prossimo futuro non ci troveremo più, insomma, in una situazione in cui da una parte avremo una Turchia desiderosa di maggior coinvolgimento europeo e che quindi spingerà verso l’integrazione nel processo storico dell’Europa istituzionale con quest’ultima divisa al suo interno tra i favorevoli e i contrari; semmai, già oggi e a maggior ragione domani, a distanza di pochissimi anni dai sogni europei della Turchia, avverrà l’esatto opposto; sarà la Turchia stessa che probabilmente non mostrerà più alcun interesse concreto di coinvolgimento istituzionale con la UE, e se al contrario essa mostrerà interesse in questa direzione, dovremo riflettere attentamente sulle reali ragioni che spingono la Turchia del XXI secolo verso una maggiore integrazione europea. La Turchia del principio del XXI secolo, rispetto a quella della fine del XX, di identico, ha solo il nome, essendo divenuta nel giro di un ventennio, quello a cavallo tra i due millenni, molto più simile nella sua psicologia all’epoca antecedente la rivoluzione kemalista che, ormai, ha concluso la sua proiezione storica e ha smesso di essere il principio guida che in senso egemonico esprime l’anima del popolo turco. Perché questo accada, cioè perché una vicenda storica smetta di esprimere il proprio dominio lasciando spazio ad un’altra, non è affatto necessario che si prendano da parte turca o di qualsiasi nazionalità, misure ufficiali o legislative che ne sanciscano l’effettività. I fenomeni di questa natura agiscono a prescindere dalla forma con cui chi ne è soggetto ne riconosce l’accadere; allo stesso modo con cui il papato, per fare un esempio, mentre l’Italia già era fatta come Stato nel 1861 e procedeva senza remore storiche alla presa di Roma nel 1870, restava ancora convinto che Roma fosse politicamente sua, sia per diritto divino sia per quello legale. Un mondo, anche allora, si era dissolto; c’era chi lo aveva compreso e chi no.
Dunque, è soprattutto in considerazione con quanto si è appena detto che vanno interpretate sia le turbolenze interne degli ultimi tre anni sia la politica ambigua (per usare un eufemismo) della Turchia nei confronti dello «Stato islamico». Rispetto a questa ambiguità nei confronti dello «Stato islamico» l’unica cosa certa ed assodata è che, la Turchia, non combatte il califfato a causa della questione curda, ossia in connessione al suo grande e classico problema geopolitico, quello di impedire la costituzione di uno Stato curdo nei territori siro-iracheni che faccia da possibile catalizzatore per i loro fratelli di Turchia; tuttavia noi siamo più che convinti che le reali ragioni che spingono Ankara a guadare con interesse allo Stato islamico siano ben più profonde e radicali che non il semplice fatto geopolitico curdo, che pure resta primario. Questo perché lo scenario non solo non è più lo stesso in un senso geopolitico ma si è anche totalmente riconfigurato su piani psicologici e antropologici che non possono minimamente essere sottovalutati o espunti nell’attuazione di qualsiasi analisi geopolitica.
Cosa significa non espungere dalle analisi il fattore psicologico o il fattore antropologico? Molto semplicemente significa che il nuovo corso turco non pensa più se stesso e la sua azione interna ed esterna principalmente in termini di equilibrio fra Potenze, spazi geopolitici, fattori economici ed energetici, cioè in un senso che prescinde in linea di principio da quella che è anche una missione al tempo stesso intrinsecamente religiosa che sempre più diverrà il fattore decisivo che detterà le linee guida di ogni sua decisione politica fondamentale. La storicità del popolo turco, dopo un secolo di abbandono del fattore religioso, degradato a elemento residuale ed ininfluente delle proprie scelte strategiche, diverrà sempre più l’elemento che in senso architettonico, ossia ponendosi quale sovrastruttura dominante, indicherà la vera direzione e il senso da perseguire; che un elemento si ponga in senso architettonico significa che ogni altro fattore che costituisce l’organismo comunitario resta subordinato al nuovo principio il quale riempie di senso e fortifica la struttura di cui è divenuto sovrastruttura scalzando ciò che in precedenza fungeva da principio architettonico.
Con la fine dell’URSS si è davvero conclusa un’epoca dello Spirito. Solo quando impareremo a capire ed assimilare il senso e le reali implicazioni di questo evento avremo gli strumenti adeguati per poter comprendere ed agire nelle crisi che nascono a causa di questa modificazione.
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