20 Giu Racconti del terrore ispano-americani del XIX secolo
di Primo De Vecchis del 01/07/2016
In Italia presso le grandi case editrici (ora come non mai sempre più monopolistiche) vige il mantra recitato dai signori del marketing: «i racconti non si vendono». Ne consegue che di rado vengono pubblicate raccolte di racconti; chi ha racconti nel cassetto cerca di allungarli il più possibile per trasformarli in romanzi, con esiti grotteschi. Eppure la bravura di uno scrittore di razza si basa sulla forma-racconto, che all’estero per fortuna è molto più praticata dagli scrittori e pubblicata dagli editori. Il discorso non muta se parliamo del “racconto fantastico”. Molti lo confondono con altri generi, persino con il fantasy; pochi sono andati a scuola dai veri maestri: alcuni credono che tali racconti siano surreali o arbitrari.
Per fortuna la piccola casa editrice Arcoiris di Salerno, nella sua collana “Gli eccentrici”, diretta da Loris Tassi, continua a pubblicare vere e proprie rarità provenienti dal continente letterario ispanoamericano e stavolta ha il coraggio di proporre “Racconti ispanoamericani del terrore del XIX secolo” (euro 12,00). Il volume è tutto una scoperta, innanzitutto per la qualità di autori rari e desueti che propone al palato fine del lettore forte, alla ricerca di autentica letterarietà e non di artifizi commerciali furbescamente costruiti.
Dei nove scrittori tradotti da Alessio Mirarchi, Dajana Morelli e Marcella Solinas (con la curatela di Lola López Martín, autrice della dotta postfazione dal titolo “Parole dall’oltretomba; la bellezza del terrore”) ammetto di aver riconosciuto solo tre nomi: Leopoldo Lugones (che mi sta particolarmente a cuore), Rubén Darío (del quale lessi in gioventù una preziosa “Antología Poética” in un alberghetto postcoloniale di San Juan, in Argentina) e William Henry Hudson (il cui nome mi risultava familiare solo grazie alla multiforme erudizione di Jorge Luis Borges, che tutti – spero – avrete letto e meditato a fondo). Gli altri nomi risuonavano nelle mie orecchie come i toponimi di terre ignote: Casimiro del Collado, Carlos Octavio Bunge, Julio Calcaño, Alejandro Cuevas, Juan Montalvo e Juana Manuela Gorriti. Si tratta di autori del XIX secolo di varia provenienza (Argentina, Ecuador, Venezuela, Nicaragua, Messico, Spagna), che si cimentarono a un certo punto della loro carriera nel “racconto fantastico”, genere reso nobile e profondo da Edgar Allan Poe ed Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, ma frequentato anche da Guy de Maupassant ed Henry James (tanto per fare dei nomi). Essendo pressoché impossibile fornire una sintesi dei racconti antologizzati, ho deciso di operare una selezione in base al gusto personale per scendere così in alcuni dettagli tecnici e formali, che amo sempre scovare. Leopoldo Lugones è uno dei padri del racconto fantastico argentino (“Cuentos fatales”, “La fuerzas extrañas”), inaugurato con forza da Jorge Luis Borges (“Tlön, Uqbar, Orbis Tertius” del 1940 fu lo spartiacque, secondo l’attendibile Ricardo Piglia), praticato con originalità da Adolfo Bioy Casares, perfezionato in chiave barocca da Julio Cortázar, e ripreso da decine di autori tradotti e ammirati.
“Il rospo” di Lugones è un breve racconto “strano”, che potrebbe stimolare la fantasia ipertrofica di uno Stephen King, il quale ne trarrebbe un romanzo di trecento pagine: qui abbiamo solo sei dense paginette. Si narra di un animale maledetto, per non dire diabolico: la rana cornuta, la quale è in grado di resuscitare e vendicarsi del suo uccisore. L’unica maniera per non incorrere nella sua maledizione è il rogo del cadavere, pratica superstiziosa che avvicina l’anfibio ai vampiri. La scena finale colpisce la fantasia con la sua enfasi grottesca:
«Quella piccola figura lugubre, immobile sulla porta illuminata dalla luna, cresceva in modo straordinario, raggiungendo proporzioni mostruose» (p 11).
Insomma, il breve racconto di Lugones è una perla bizzarra della quale non sospettavo nemmeno l’esistenza.
Uno dei racconti più interessanti della raccolta, a mio modesto avviso, è “La confessione di Pelino Viera” di William Henry Hudson.
Le ragioni di questa mia predilezione credo che siano di ordine eminentemente tecnico: il racconto del soprannaturale è pressoché perfetto. Vi troviamo tutti gli ingredienti del genere, miscelati con sapienza. Naturalmente, un manoscritto. Non è stato trovato in una bottiglia, bensì in una prigione e si tratta della relazione di Pelino Viera, accusato dell’omicidio della moglie, il quale riporta la sua incredibile versione dei fatti, che molti potrebbero considerare il delirio di un pazzo. La confessione inizia con toni lirici e campestri e si tinge sempre più di orrore nell’arco della vicenda. Tutto ruota attorno alla figura misteriosa della moglie di Pelino, Rosaura, la quale presto dimostra di governare con astuzia le arti magiche e stregonesche apprese da una vecchia megera (ops… scusate, curandera), che compare in una scena iniziale del boschetto, mentre si accapiglia furiosamente con l’allieva. Un profumo narcotico aleggia nella stanza di Pelino; inoltre di notte la moglie strega si spalma un unguento e si trasforma in una creatura alata. Non voglio svelare altro: ho già detto troppo. Dirò solo che nel racconto assistiamo persino a una sorta di viaggio astrale, nel cosmo, che mi ha rammentato uno splendido racconto di William Hope Hodgson, “La casa sull’abisso”. Hudson è uno scrittore di razza, dallo stile lirico e preciso; inoltre si nota subito che è un naturalista, e d’altronde fondamentale nel genere fantastico è l’atmosfera (come insegna Howard Phillips Lovecraft). La magia di Edgar Allan Poe si fonda proprio sullo scenario, sull’atmosfera perturbante espressa con uno stile poetico e sublime. Molti di questi autori sono andati a scuola dallo stesso Poe ed Hoffman (come gli scapigliati italiani d’altronde: si pensi a Igino Ugo Tarchetti o ad Arrigo Boito).
L’altro racconto di punta dell’antologia è senz’altro “Il cane interiore (lettera confidenziale di un uomo di scienza)” di Carlos Octavio Bunge.
Qui uno scienziato, un chimico, parla di un fatto straordinario, non spiegabile dalla logica, il cui strapotere viene peraltro sminuito:
«La logica è uno strumento volgare e schematico, e l’organismo umano è uno strumento complesso e impreciso. La logica fa riferimento specialmente all’intelligenza, e l’uomo di talento pensa con tutto il corpo, perfino con le mani e con i piedi. La logica è la forza del volgo; la mancanza di logica, quella dell’uomo geniale» (p. 75).
Il narratore parla del suo assistente, Guillermo Grunbein, che cela una metà oscura (per citare Stephen King), ovvero un cane interiore. Non si tratta solo di una metafora dell’inconscio. Tutti siamo a conoscenza dell’esistenza dei lupi mannari: questa è una variazione sul tema. Il cane rappresenta Mister Hyde, il represso, l’impulso, l’istinto bestiale e feroce, che alberga in ognuno di noi e che a tratti può riemergere dall’ombra con esiti rovinosi per la psiche. Ancora una volta il tema fantastico per eccellenza è la metamorfosi. Ma qui siamo in un clima positivistico, razionalista, che vede nascere per contrasto discipline occulte come lo spiritismo (si parla infatti di “materializzazioni”). Senza svelare la trama vedremo apparire verso la fine anche la presenza di un cane fantasma, che corona quindi l’ossessione presente nel racconto.
Per finire, alcune note generali. Il racconto fantastico, contrariamente a quanto si pensi, è strettamente legato al realismo letterario. Solo uno scrittore minuzioso e realista può introdurre a un certo punto con efficacia lo squarcio del “velo di Maya” per mostrarci quali oscure entità si muovono oltre lo spazio-tempo. Occorrono metodo e precisione: non a caso Poe e Lovecraft sottolinearono questi aspetti con esiti quasi maniacali. L’irruzione consapevole e inattesa dell’ombra e delle forze oscure dell’inconscio può avvenire solo in una mente cristallina e razionale che aveva perduto il contatto con le proprie pulsioni radicali, mascherandole. Questa scoperta della belva sottile e segreta, del serpente che alberga dormiente in ognuno di noi, è una delle più profonde rivelazioni extraletterarie che il genere del racconto fantastico ci abbia mai donato. Sigmund Freud ne trasse il saggio sul perturbante (Das Un heimliche). Ma non basta. Occorre scendere più a fondo, dove giacciono gli archetipi (Carl Gustav Jung docet). Occorre stilare una demonologia oculata, una teologia narrativa alla quale forse ancora nessuno ha messo mano.
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
No Comments