20 Giu Leo Longanesi, il borghese conservatore
di Francesco Giubilei del 20/06/2016
Scrivere un libro su Leo Longanesi senza essere influenzati dalla biografia che Indro Montanelli e Marcello Staglieno gli dedicarono nel 1984, oltre che una carenza bibliografica, costituirebbe una grave mancanza nella comprensione del personaggio. Appurato il valore del libro di Montanelli e Staglieno e costatata la presenza di altri testi dedicati alla figura di Longanesi, è lecito domandarsi l’utilità di un’altra biografia sull’intellettuale romagnolo.
Le motivazioni sono molteplici: anzitutto il libro di Montanelli e Staglieno, uscito negli anni ’80, è fuori commercio e difficilmente reperibile (al di là delle biblioteche), in secondo luogo per dire una banalità – che in realtà non è tale – non si finisce mai di scrivere e raccontare la vita dei grandi uomini.
Una terza motivazione è la coltre di silenzio calata negli ultimi anni sulla vita e sulle opere di Longanesi, un destino comune ai personaggi scomodi e difficilmente etichettabili. Sintetizzare la sua figura con una definizione è complesso: controcorrente, irriverente, conservatore scomodo
(come lo definì Andrea Ungari nel titolo del suo libro).
Chiamarlo “fascista” sarebbe invece errato (eppure fu lui a coniare il celebre motto “Mussolini ha sempre ragione”), allo stesso modo l’etichetta di antifascista non gli si addiceva. Fu un borghese e allo stesso tempo critico e fustigatore dei vizi della borghesia italiana, un personaggio scomodo ma dotato di un intuito giornalistico, un humour, una raffinatezza d’intelletto che difficilmente nella storia culturale italiana si sono riscontrati in altre personalità.
Lo stesso Longanesi era conscio di questa sua incollocabilità: “lo storico che fra cent’anni scriverà la storia di questo straordinario ‘Italiano’, se pure in quel tempo userà ancora dedicarsi a una simile professione, dovrà essere un bel tipo. Solo un matto potrebbe intraprendere un tale lavoro; ma vedrete che il matto si troverà”
Mitizzò l’Ottocento consapevole che il mondo che rimpiangeva non era mai esistito, o meglio non era esistito come l’immaginava lui: “gli serviva, quel mondo, come contrappunto alla volgarità del mondo moderno con cui non si riconciliò mai. Longanesi detestava la volgarità”.
Longanesi si oppose per tutta la vita alle tentazioni della modernità consapevole che ogni cosa scade lasciando spazio alla moda successiva, destinata anch’essa, dopo qualche tempo, a essere sostituita:
“il moderno invecchia e il vecchio torna di moda”.
L’uomo e l’intellettuale spesso non coincidono: grandi giornalisti si sono dimostrati piccoli uomini, non sempre le qualità professionali si equivalgono con le doti umane.
Nella biografia di Montanelli e Staglieno emerge un Longanesi sicuro di sè, a tratti spavaldo e, in alcune occasioni, addirittura violento o con esternazioni irriguardose (come nel caso Gobetti e Matteotti) durante il periodo fascista.
In apparenza una persona diventa da quella del dopoguerra, delusa, disillusa e forse senza più stimoli. Non credo tuttavia nella descrizione fatta da Massimo Fini in un articolo pubblicato sul suo sito dal titolo emblematico “I due volti di Longanesi”, in cui contrappone un Longanesi “vincitore” durante il fascismo a un Longanesi “sconfitto” nel dopoguerra. Prendendo spunto da alcuni episodi raccontati nella bibliografia di Staglieno e Montanelli, Massimo Fini scrive: “il Longanesi vincitore era molto diverso da quello sconfitto, era becero, violento, sopraffattore, sicuro di sè, opportunista, spietato con gli altri ma non con se stesso, e volgare” e rincara la dose citando la spedizione punitiva contro Toscanini o le raccomandazioni per fare pubblicare un libro a Camillo Pellizzi.
In realtà si tratta di una visione parziale del carattere di Longanesi e, se certi suoi comportamenti ed esternazioni sono senz’altro da condannare, vi sono alcune attenuanti per i gesti di Leo.
Nonostante Fini nel suo articolo scriva: “Si dirà che allora Longanesi aveva poco più di venti anni, ma (…) solo in questa epoca di giovanilismo si è affermato, chissà perchè, il principio che a quell’età uno non è responsabile di quello che fa” la giovane età è sicuramente una attenuante.
Inoltre non dimentichiamo di contestualizzare comportamenti di Longanesi nel periodo storico in cui sono avvenuti. Se il suggerimento a Pellizzi di dedicare un libro ad Arpinati per accrescere la possibilità di pubblicazione non è un gesto di grande valore etico, si inserisce in un contesto storico dove simili azioni erano la prassi. Così come la promessa allo stesso Pellizzi si scrivere un articolo critico su L’Italiano contro l’editore Bemporad – suggerendo tra le righe “di pubblicarti il libro sotto la penna di grossi guai” – appare, purtroppo non norma conservata anche nella editoria contemporanea: figuriamoci al tempo.
Chi era quindi in realtà Leo Longanesi? Un intellettuale che approfittava della sua posizione privilegiata durante il fascismo e caduto in disgrazia dopo la fine del regime, oppure un editore, un giornalista, scrittore, pittore anticonformista e difficilmente etichettabile in qualsiasi epoca? Accusarlo di aver aderito in modo totale al fascismo sarebbe una falsità; basti pensare alla decisione del regime di far cessare, dopo soli due anni di attività, le pubblicazioni Omnibus. La sua adesione fu a tratti opportunistica, certamente atipica, legata più al fascismo che la figura di Mussolini, anch’egli romagnolo, esercitava su di lui che a reali convinzioni.
Il figlio di Leo, Paolo Longanesi, in uno scritto intitolato “Longanesi, un antidoto contro la mediocrità”, colse la difficoltà di ricordare la personalità di Longanesi spiegando come, essendo Leo morto quando lui era ancora bambino, le persone che lo avevano conosciuto in vita “andavano fornendo a me e agli altri nulla più che i vividi ricordi adatti solo a regalare Leo Longanesi nel ruolo di personaggio. Sfuggiva sempre, dalle loro descrizioni, la dimensione della persona.
La migliore eredità di Longanesi e l’unico modo che ci rimane per comprenderlo realmente, è la sua opera che si articola in varie discipline: dalla scrittura all’editoria, dalla pittura al giornalismo poiché, come annota giustamente il figlio Paolo, “il nostro tempo non ci consente di avere sotto mano molti altri esempi come il suo, essenziale nella qualità e abbondante nella quantità”.
La grandezza di Leo consisteva nel suo essere poliedrico, difficilmente incasellabile, sempre con la battuta pronta. Sapeva trasmettere le proprie idee e pensieri attraverso un linguaggio che lo caratterizzava in modo inconfondibile: “Longanesi detesta gli articoli lunghi, usa gli aforismi, le finestre, cambia i caratteri a secondo degli autori, cerca gli autori in funzione dei caratteri tipografici che preferisce”[7]. Nel suo giornalismo univa il linguaggio politico a quello letterario conquistandosi un proprio pubblico attraverso “volute sovrapposizioni e ricercate in-comprensioni”.
(…)
Leo Longanesi fu un fustigatore dei vizi del bel paese, lo fece con grande ironia ma anche nello stile schietto e diretto che gli apparteneva provenendo da una terra dove la concretezza veniva prima di tutto: “se vogliamo trarre un utile dalla lezione di questo uomo, dobbiamo rassegnarci a riconoscere i nostri difetti che egli vide e descrisse circa mezzo secolo fa senza però mai essere un inquisitore. Superato questo scoglio avremo l’occasione di mettere le mani sull’eredità che Longanesi ci ha lasciato”.
Dal ’45 in avanti Leo comprese che il suo lavoro difficilmente sarebbe stato compreso dalla maggioranza degli italiani, eppure le sue pubblicazioni e riviste raggiungevano un grande pubblico ottenendo successo e ottimi riscontri.
“I nostri ammiratori, Dio mio, meglio non conoscerli” scriveva in La mia signora e aggiungeva “superficiali sì, ma di buona famiglia”.
Un personaggio con posizioni politicamente scorrette come Longanesi, non poteva che non essere compreso dalla società del tempo. Appoggiò idee scomode, spesso perdenti, mai legate al sentire e all’opinione comune. Tuttavia non condivido l’analisi di Marco Vallora in La patria col bagno: “riuscire a comprendere come un’intelligenza tanto folgorante e in fondo anticonformista, una genialità così moderna e sulfurea, sia poi stata messa al servizio non diciamo delle cause perse, che sarebbe anche encomiabile e simpatico, ma di idee stantie e grevi, odorose di scadente tabacco e di scottante cialtronaggine”. Longanesi scelse sempre la strada più difficile; frondista e castigatore dei vizi del regime – così come lo sarà, per tutta la vita, dei vizi degli italiani – e nostalgico di un fascismo che aveva ripensato nella sua mente, non riuscì mai a integrarsi appieno nel tempo in cui viveva.
Di tutte le sue decisioni, quella che stupisce di più un osservatore esterno, fu la scelta nostalgica nel dopoguerra. In fin dei conti Mussolini gli aveva fatto chiudere Omnibus, un episodio di tale gravità da poter essere facilmente utilizzato per cercare di riabilitarsi come oppositore del fascismo nel dopoguerra. Così avevano fatto molti intellettuali legati al regime tanto quanto Longanesi che assunsero posizioni antifasciste. Su Leo gravava però come una scure il fatto di essere stato l’artefice della frase “Mussolini ha sempre ragione” che gli rimase addosso per tutta la vita.
Leo, da sempre bastian contrario, giudicava un tradimento la decisione di tanti giornalisti, scrittori e politici che avevano aderito al fascismo usufruendo dei vantaggi legati all’iscrizione al PNF, di dichiararsi convinti antifascisti non solo rinnegando il proprio passato ma attaccando apertamente il fascismo.
E dire che proprio lui, il 25 luglio del ’43, si era unito alla folla che festeggiava a Roma la caduta del regime.
Bibliografia:
_Francesco Giubilei, Leo Longanesi il borghese conservatore, edizioni Odoya 2015
_Un conservatore scomodo. Leo Longanesi dal fascismo alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2007
_ Montanelli I. Staglieno M, Leo Longanesi
_Longanesi e gli italiani di Mariuccia Salvati in Longanesi e italiani, Faenza, Edit Faenza, 1997
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