L’appressamento della morte nel romanzo di Ugo Tarchetti

di Primo De Vecchis del 01/07/2016

Esistenza tormentosa e agitata fu quella di Iginio Ugo Tarchetti, scrittore nato a San Salvatore Monferrato nel 1839 e morto prematuramente di tifo a Milano nel 1869. Una vita segnata dalla malattia, la tisi o tubercolosi polmonare, ma anche dalla passione romantica: decise infatti di aggiungere al suo nome quello di Ugo in onore del Foscolo. Nella sua breve vita ci ha lasciato una manciata di racconti, per lo più postumi, e una serie di romanzi, dei quali il più famoso rimane Fosca, pubblicato nel 1869 dall’amico Salvatore Farina, che scrisse anche il capitolo XLVIII, seguendo le indicazioni fornite a voce dallo scrittore ormai morente.

Tarchetti è considerato dalle storie letterarie uno degli esponenti più decisivi della “scapigliatura” milanese, movimento letterario alquanto disomogeneo, che si sviluppò a Milano negli anni successivi all’Unità d’Italia e che annoverò tra le sue fila Cletto Arrighi, Emilio Praga, Arrigo e Camillo Boito, Carlo Dossi, solo per citarne alcuni. Tarchetti entrò in contatto con il movimento letterario verso il 1865, quando si trasferì a Milano, dopo essere stato per un periodo impiegato al commissariato militare dell’esercito sabaudo e aver partecipato alle campagne militari del neonato Regno d’Italia contro il brigantaggio nel meridione. L’esperienza non fu di certo positiva, dato che Iginio abbandonò l’uniforme; in seguito scriverà anche il primo testo antimilitarista della storia letteraria italiana: Una nobile follia (1867). Ma il contatto con gli scapigliati, che recepivano gli insegnamenti degli autori d’Oltralpe, principalmente di Baudelaire (che a sua volta filtrava Edgar Allan Poe), ma anche di Hoffmann e Heine, favorì l’emersione dei capolavori dell’autore, che presentava già una inclinazione per il macabro e il grottesco. Fosca è un romanzo giustamente noto per la sua protagonista femminile, una donna coltissima, bruttissima e malata di epilessia, che emerge da queste pagine desuete con una forza prorompente e ossessionante.
Mi basterà citare un frammento decisivo delle sue lettere rivolte a Giorgio, un giovane militare, l’uomo che ama alla follia:
 
«Io nacqui malata; uno dei sintomi più gravi e più profondi della mia infermità era il bisogno che sentiva di affezionarmi a tutto ciò che mi circondava, ma in modo violento, subito, estremo. Non mi ricordo di un’epoca della mia vita in cui non abbia amato qualche cosa. Mi asterrei dal raccontarti ora alcune particolarità di questa mia disposizione morbosa, se non fosse che ciò deve spiegare le molte anomalie che dovrai riconoscere più tardi nel mio carattere. La mia potenza di affettività non aveva né modi, né limiti; era una febbre, una espansione, un’irradiazione continua; avrei potuto amare tutto l’universo senza esaurirmi» (Cap. XXIX).
Il romanzo è quindi una radiografia originale e intensa di una psicopatologia tutta al femminile, che incarna però in parte il temperamento perturbato dello scrittore. «Fosca c’est moi», potrebbe infatti mormorare Tarchetti, parafrasando la frase di Flaubert. Egli infatti, perseguitato dalla Morte tramite il morbo che lo corrodeva, anelò ardentemente alla vita; amò molte donne e da queste fu riamato; questo suo attaccamento morboso nei confronti delle donne doveva risarcirlo del male che gli alitava nel petto. Ciò è in parte alluso nella prima parte del romanzo, quando il protagonista maschile, Giorgio, bello e sofferente, fa innamorare per pietà la bionda Clara, donna sposata e con un figlio, innescando un processo psicologico del tutto affine al “vampirismo” spirituale:
«Non so come avvenisse, ma è ben certo che ella mi aveva data la sua forza e la sua salute assieme al suo affetto» (Cap. V).
Ma per una legge del contrappasso, Giorgio dovrà imbattersi in Fosca, più “vampiresca” di lui, nonché laida, scheletrica, epilettica, venefica, eppure ammaliante, colta, fascinosa, soavissima. Ecco quindi che Tarchetti si sdoppia: se dapprima il suo animo s’incarna in Giorgio, militare come lui, bello e misterioso, ecco che via via nell’arco del romanzo l’autore penetra sempre più nelle latebre psichiche di Fosca, dotta come Leopardi, vittima di una malattia eccezionale e incurabile, i cui accessi talora la fanno rassomigliare a una indemoniata, del tutto simile a quella donna magra e inteschiata e dall’alito graveolente che tutti chiamiamo Morte. Tarchetti è attratto dalla “sorella nostra morte corporale” e desidererebbe forse abbracciarla e baciarla; ciò avviene di fatto in un suo racconto orrorifico, vergato alla maniera di Poe, Le leggende del castello nero:
«Alzai gli occhi rabbrividendo e vidi il suo volto impallidire, affilarsi, scarnarsi, curvarsi sopra la mia bocca; e colla bocca priva di labbra imprimervi un bacio disperato, secco, lungo, terribile…».
Una scena che sembra anticipare The Shining di Stanley Kubrick: alludo alla donna nuda che esce dalla vasca da bagno e abbracciando Jack Torrance si tramuta in una vecchia laida, piagata e sghignazzante.
Che Fosca incarni l’attrazione macabra nei confronti della cessazione del vivere è mostrato chiaramente da questo passo:
«Il vederla già consunta, già incadaverita, abbracciarmi, avvinghiarmi, tenermi stretto sul suo seno durante quei suoi spasimi, era cosa che dava ogni giorno maggior forza a questa fissazione spaventevole» (Cap. XXXIII).
Sempre tornando a Fosca, l’altro tema che s’intreccia misteriosamente con quelli della malattia, della follia e della morte è senz’altro l’affinità con la Natura intesa come Madre. Tarchetti, dal temperamento romantico, ha una straordinaria sensibilità nei confronti delle manifestazioni naturali. Che la terra sia serenamente legata alla “morte corporale” (come una madre che alla fine accoglierà di nuovo nel suo grembo fecondo i propri figli) è evidenziato da una confessione di Giorgio:
«Sì, io amo la terra, questa bella terra; io son certo che essa sarà lieve sulla mia fossa, quando stringerà dolcemente il mio petto colle sue braccia di selci e radici» (Cap. III).
Non solo, attraverso il prisma della Natura contemplata, il processo di deperimento ed entropia della materia assume una più alta significazione, che ha il sapore di una serena accettazione e quindi di una sotterranea saggezza spirituale (la quale si avverte qua e là in mezzo ai picchi convulsi assunti dalla posa romantica, scomposta e quindi in genere lontana dalla saggia quiete):
«Tutto ciò che vive presenta, nel deperire e nel distruggersi, gli stessi fenomeni che ha presentato nel nascere e nello svilupparsi; si muore come si ha incominciato a vivere, quasi che ciò che noi chiamiamo morte non sia che il formarsi del germe di un’altra vita» (Cap. XXXVI).
Forse da qui dovremmo ripartire per ricollocare Fosca nella giusta luce che merita: si tratta infatti di un romanzo precursore delle inquietudini novecentesche, già percorso nelle sue pieghe dal perturbante freudiano (identificato appunto nel romanticismo tedesco, ben noto agli scapigliati).
Il tema dell’ombra e persino del doppio (oggetto di molte indagini psicanalitiche) fa capolino in una breve scena geniale del romanzo tarchettiano, con la quale vorremmo concludere il nostro articolo, per rendere merito a questo romanzo di certo studiato, ma non troppo:
«Senza accorgermene aveva preso in mano la candela; la mia ombra che si allungava sul pavimento e si piegava alla base della parete risalendola come vi aderisse, mi seguiva su e giù per la stanza. […] vidi vicino a me un ragno nero che si arrampicava su pel muro, lo abbruciai colle fiamme della candela, e lo sentii friggere e scoppiettare con una specie di voluttà quasi crudele. Passando vicino a uno specchio, vi scorsi riflessa la mia persona, e mi arrestai a contemplarmi. Aveva quasi paura di me, mi pareva che il mio volto non fosse quello, che avrei dovuto averne uno diverso» (Cap. XLVI).
 
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