Poeti: tra gloria e condanna

Poeti: tra gloria e condanna

di Marzia Casilli del 05/06/2016

Ho passato un intero pomeriggio a parlare di Petrarca a un gruppo di sedicenni rimandati in italiano.
 
E mentre parlavo loro, del suo animo spigoloso e inquieto, dell’incapacità non solo di trovare, ma persino di cercare pace, me li sono ritrovati con gli occhi spalancati, fissi, attenti.
L’idea era quella di analizzare lo stile del Canzoniere, ma ci si è soffermati sul poeta. Sulla figura di quest’uomo che si contrappone a Dante, il poeta per eccellenza, da ogni punto di vista.
Ho sempre amato Petrarca, il suo essere uomo e in quanto tale debole senza vergognarsene, dotato di una grande e inefficace volontà di cambiare la propria natura controversa, portatore sano di un travagliato percorso interiore. Nessuno scrittore dell’epoca, prima di lui, aveva avuto una coscienza così acuta della propria individualità, un’attenzione, a tratti ossessiva,per la propria interiorità.
Le questioni amletiche che si poneva, non sono mai state dotate di risposte. Ci ha lasciato solo domande. Un labirinto di se e di forse. Milioni di perchè. L’uomo è un punto di domanda, non una risposta.
Studiando la vita di Petrarca si capisce che il poeta, è colui che non è capace di trasformare i pensieri in azioni.

I dubbi in convinzioni. Il desiderio del poeta è quello di desiderare. Una costante incostanza sentimentale. Consacrato e dannato dal suo talento.
Ha bisogno di essere perennemente in tensione, allungato verso l’ irraggiungibile, con la misera consapevolezza della sua vana posizione e l’impossibilità di mutarla. L’obiettivo a cui tendere, non deve essere raggiunto. E se lo sarà, in fretta, bisognerà trovarne un altro. I poeti si innamorano per se stessi. Avvicinano e respingono l’amore, una dura battaglia fino alla fine, senza alcun vincitore. Emotivamente frastagliati e insoddisfatti della loro insoddisfazione. I poeti son rime sparse, traghettatori senza porti, di se stessi. Amare la vita, e non essere capaci di viverla. Questo è il vero dramma del poeta. Assistere alla propria vita, leggerla, come il più accanito dei lettori.
Esistere ed esitare. Nel 1300 come oggi, bisogna sperare di non essere mai amati da uno di loro, non ameranno mai chi avranno davanti, ma soltanto l’idea.
Si lanceranno in follie ed eclatanti conquiste per poi perdere tutto a un passo dall’afferrare la mano alla quale tendevano.
La Laura del Petrarca, simbolo dell’attrazione viscerale e potente e allo stesso tempo ripudio violento per il sentimento stesso, non sarà mai raggiunta dal poeta.
Solo bramata, da lontano quando sarà in vita, con inutile e ridicola nostalgia per un tempo mai condiviso, una volta morta.
Ma più di tutto bisogna sperare di non essere mai uno di loro.
L’ inquietudine, la smania, la frenesia di vivere, è quella cosa che ti fa stare in un posto che hai sognato mentre stai già pensando a un altro da raggiungere.
La voglia di vivere, è quella cosa che non ti fa vivere.
E il caro Petrarca, lo sapeva bene.
 
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