03 Giu Ernst Jünger, l’anarca
di Giuseppe Baiocchi del 03/06/2016
Ernst Jünger, come è noto, è stato gratificato dalla natura con una lunghissima vita, nasce ad Heidelberg, 29 marzo 1895 e muore a Riedlingen, il 17 febbraio 1998 a 103 anni di età.
La dimora dove abitò negli ultimi anni era la foresteria del palazzo di conti von Stauffenberg, cioè nel palazzo di cui era stato titolare l’eroico ufficiale prussiano della Wehrmacht che aveva organizzato il complotto per uccidere Adolf Hitler e complotto al quale lo stesso Jünger partecipò nelle seconde file.
La cosa fu nota alla repressione e allo stesso Hitler, il quale miracolosamente ordinò che Jünger non fosse toccato poiché la sua figura era il fiore all’occhiello della cultura nazionalsocialista.
Il nazismo voleva mostrare che nonostante il regime avesse – de facto – bruciato molti testi, possedeva i suoi scrittori e i suoi grandi interpreti culturali. Lo scrittore tedesco, fu punito: fu degradato, espulso dall’esercito e suo figlio Ernstel ventisettenne fu mandato a morire presso i “marmi di Carrara” con la divisione tedesca suicida, che combattendo in quella zona pericolosissima sapeva di essere tutta votata alla morte (suo figlio è sepolto lì).
Nato nel profondo centro della Germania, figlio di un chimico farmacista, di stampo medio-borghese, con molti fratelli, ribelle di fronte alle convenzioni, da ragazzo si trovava in posizioni anarchiche fondanti sullo sloagan: “meglio essere delinquente, che un borghese” ed una formula che ritorna spesso nei suoi scritti giovanili.
A diciotto anni fuggì di casa e si arruolò in Francia nella legione straniera, dalla quale fu ripreso solo dal padre, qualche tempo dopo, che lo ricondusse a finire gli studi secondari al Gymnasium. Nel frattempo scoppia la prima guerra mondiale e il giovane Jünger partecipa come giovane volontario, pur non essendo obbligato a parteciparvi.
Per gli atti di eroismo, che consistevano non nell’uccidere molti nemici, ma nel salvare molti commilitoni, egli fu nominato ufficiale; successivamente alla fine della guerra, se pur perduta, fu decorato con la più alta decorazione militare tedesca: la croce Pour le merite.
Subito dopo la guerra, egli grazie al suo talento di scrittore fu considerato uno dei leader del movimento revanscista scrivendo per alcuni giornali che nascevano da questi ambienti e compì diversi giri attraverso la Germania per conoscere bene la realtà tedesca e i sentimenti, gli umori dei tedeschi, compiendo i suoi viaggi tutti a sue spese e verso le “terre ignote” – termine coniato dalla devastazione economica della Germania di quegli anni. In uno dei suoi viaggi fece tappa a Husum (cittadina della Germania del Nord) dove è situata la casa-museo di Theodor Storm (1817 – 1888) e nel suo manoscritto/diario egli lesse una quartina di versi, che io trovo mirabile, che mise come exèrgum ad un saggio su un mediocre comandante militare Ludendorff. La quartina riporta quello che divenne la “divisa” di Ernst Jünger :
“Uno domanda: e poi che cosa ne consegue?
Un altro domanda soltanto: questo è giusto?
Così si distingue il libero dal lacchè”
Dopo la prima guerra mondiale egli parte con grandi scritti, primo fra tutti Nelle tempeste d’acciaio (In Stahlgewittern 1923) grande capolavoro. Nel romanzo storico lo scrittore tedesco ci consegna un testo che possiede freddezza tali e acume nei particolari del combattimento da renderlo unico nel genere bellico, consegnando alla storia una testimonianza che immerge il lettore nelle fangose trincee delle Fiandre. Nella cronaca degli eventi il filosofo tedesco inserisce passioni, sentimenti, impressioni, predilezioni e avversioni, tutto assume una sfumatura diversa, muta.
Tagliato fuori dalla società civile, Jünger entra nella dimensione reale della guerra-inferno, governata da leggi che prima non conosceva; per descriverla, per raccontare i fatti che avvengono nel suo interno, sembrano necessari nuovi mezzi sensoriali, espressioni diverse, come la vista la quale diventa strumento essenziale di sopravvivenza.
La realtà visiva è di una precisione e di una finezza mirabili con le descrizioni che diventano di tale verità, guidate da un senso così istintivo del reale, che assumono taglio e ritmo di narrazioni.
Nelle trincee dell’Artois il Settantatreesimo reggimento di fucilieri, il “Gibraltar”, rimase diciotto mesi, dalla primavera del ’15 alla fine estate del ’16. Jünger è promosso sottotenente, e ha modo di conoscere sino in fondo la vita di trincea, di fare esperienze inimmaginabili. Ecco uno stralcio:
“Durante la guerra mi sforzai sempre di considerare l’avversario senza odio, di apprezzarlo secondo la misura del suo coraggio. In battaglia cercai di individuarlo per ucciderlo, senza attendere da lui cosa diversa. Mai però che ne abbia pensato male. Quando, in seguito, mi caddero in mano dei prigionieri, mi sentii responsabile della loro sicurezza e cercai di fare per loro quanto era in mio potere.”
Qui si denota, altra grande caratteristica del personaggio Ernst Jünger: il suo rispetto sincero, quasi cavalleresco verso l’avversario, senza scorrettezze, di altra epoca. Un personaggio nobile, pulito che non aveva pregiudizi ideologici in guerra, ma che vedeva questa come un movimento della storia che andava eseguito, nel migliore dei modi.
E in questa sezione, relativa all’esperienza della guerra di logoramento, con i suoi riti, la sua monotonia, i suoi soprassalti furibondi, che meglio è possibile seguire il cuore del libro con le minuziose descrizioni dei “non luoghi” come le trincee.
Il tono viene uniformato, lo stile è limpido e secco appena increspato quando gli eventi diventano immani: le considerazioni soggettive sono ridotte al minimo.
Il dibattito sulla natura del libro prosegue tutt’ora, ma la storia, cominciata nel 1920 con un piccolo diario, continua più drammatica che mai: anche per questo la proposta di rileggere l’opera di esordio sembra opportuna. “Nelle tempeste d’acciaio” va veduto come un opera “unica” nella letteratura del secolo.
Questa opera, secondo il mio modesto parere, è senza antecedenti né seguito, ma deve essere lasciata fuori da schemi ideologici e politici.
“Le Tempeste” figurano come un opera singolare nella distesa sterminata della letteratura europea.
Dopo il 1923 seguirono altri scritti minori sulla 1°guerra mondiale fra cui “Boschetto 125”, ma della prima guerra mondiale lui parla molto circostanziatamente rievocandola a distanza di anni nel grandissimo terribile libro del 1932 “l’Operaio” dove i suoi scritti si immergono sulla meccanica, sulla guerra, sul materiale bellico tipici di Jünger.
Arriva la 2°guerra Mondiale, si occupa, sostanzialmente di letteratura essendo noto come un grande narratore, incomincia la sua prima e unica trilogia narrativa “sulle scogliere di marmo” del 1939/1940 con la guerra che poi travolge anche lui.
Ernst è ufficiale (capitano) in Francia e guida la cavalcata vincente tedesca sull’esercito anglo/francese (il tutto riportato mirabilmente in Giardini e strade).
Dopo l’occupazione va al suo merito il salvataggio di parecchie decine di intellettuali ebrei.
I maligni si chiedono: “perché gli intellettuali sì e gli altri no?” Ma in risposta dico, che era la sua funzione interiore: andare in Francia per salvare coloro che rappresentavano l’intelligenza di un Europa, si sperava, successiva a quel mostro che egli definiva Hitler.
Con la sua miracolata salvezza per aver partecipato all’operazione Valchiria fu accusato e incriminato di alto tradimento nel 1944.
Roland Freiser, presidente del Tribunale del popolo dal 1942 al 1945, scrive a Martin Bormann, (capo della Cancelleria del partito dal 1941), di archiviare il procedimento contro il capitano Jünger, accusato per il suo romanzo “Le scogliere di marmo” (1939) di idee disfattiste, manifestate anche quando era a Parigi, presso lo stato maggiore del comandante in capo Von Stulpnagel.
L’ordine di scarcerazione venne, come detto in precedenza dallo stesso Hitler.
Dopo la guerra ebbe ancora accuse di essere un nazista, messo al bando, poi a metà degli anni cinquanta un premio letterario importante: il premio “Goethe” lo riabilita, lo riaccosta al circuito della grande cultura tedesca ed egli continua a vivere molto poveramente, si sposa una seconda volta con una donna molto più giovane di lui.
Invecchiando, tutti si domandano, se lui non sia diventato immortale, se non abbia bevuto il filtro dell’immortalità, ma tutto ha fine e ci ha lasciato uno straordinario patrimonio letterario in diari, alcuni dei quali ancora sono inediti in Italia.
L’austerità di vita, il magiare poco, la tonicità fisica data dallo sport, il camminare molto e il meditare alle cose alte credo che abbia un forte significato etico, oltre che estetico.
Per quanto concerne la meditazione e la filosofia della storia, nel 1932 Ernst Jünger scrisse “l’Operaio, dominio e forma” un libro controverso che però sarà per il filosofo tedesco un grande strumento di maturazione culturale intrinseca e lo stralcio che riporto è la parte iniziale del libro precisamente il primo capitolo dell’Operaio: l’era del terzo stato, come età di dominio apparente.
Alla conclusione di questo breve tratto alquanto terribile, potreste sentirvi sconcertati, nel senso che se si abbandonasse la lettura al punto successivo di questo brano l’immagine che ne verrebbe fuori sarebbe molto imbarazzante soprattutto per quanto riguarda i rapporti con la figura, l’archetipo di cui egli ci dà i primi tratti, ma così non sarà perché subito dopo questo libro e successivamente il 1932, ci fu il gennaio 1933 con la presa di potere in Germania da parte del nazionalsocialismo. “Clibolo” come Jünger chiamava Hitler divenne onnipotente in Germania, iniziarono i roghi dei libri, incominciò la repressione verso le associazioni culturali e in generale verso la cultura, iniziò la lotta che per il popolo tedesco tra la cultura (nazista) e la civilizzazione (Europea) alla Stefan Zweig, personaggio europeo che inizialmente sembrerebbe all’antitesi di Ernst Jünger, ma se continuiamo a leggerlo nella totalità delle sue opere, scopriamo che le due grandi figure coincidono perfettamente dandoci una grande immagine di cultura tedesca che spesso è la migliore interprete della cultura francese, italiana, americana, orientale.
Questo fu il filosofo tedesco nei suoi ultimi anni: un internazionalista, un italianizzante sfrenato, un amante del nostro popolo e del nostro paese, persino dei suoi difetti più insopportabili e anche un grande cultore delle filosofie orientali, delle pratiche di saggezza, anche fisiche che portano alla sfera dell’essere abbondonando la sfera dell’avere.
Vi riporto dunque il terribile inizio dell’Operaio:
“In Germania il dominio del terzo stato non è mai riuscito ad intaccare quell’intimo nucleo che da un senso alla ricchezza, alla potenza e alla pienezza del vivere.
Rievocando il secolo di storia tedesca alle nostre spalle, possiamo dichiarare con orgoglio di essere stati cattivi borghesi, non sulla nostra misura era tagliato l’abito, mai logoro fino all’ultimo filo, tra i cui brandelli già mostra il suo volto una natura più selvaggia e innocente di quella le cui delicate vibrazioni sonore ben presto fecero tremare il sipario, dietro al quale il tempo celava il grande spettacolo della democrazia. No! Il tedesco non fu un buon borghese e lo fu tanto meno, dove egli fu più forte. In ogni luogo della terra, dove il pensiero fu più ardito e più profondo e il sentire più intenso e il combattimento più inesorabile, fu evidente la rivolta contro i valori, che la ragione con la sua grande dichiarazione di indipendenza aveva levato le stelle, ma in nessun altro luogo gli uomini investiti di quella diretta personalità che viene chiamata genio, furono come qui da noi isolati. In nessun luogo, come qui, essi furono in pericolo. In nessun luogo, lo spirito eroico ebbe nutrimento più avaro. A fondo dovettero penetrare e radici, giù nel terreno arido, fino a raggiungere le sorgenti di cui riposa la magica unità di sangue e spirito che fa irresistibile la parola. Ugualmente arduo fu per la volontà, realizzare un’altra unione: quella di forza e di diritto, che ispira il nostro carattere peculiare di fronte allo straniero e lo innalza al rango di legge. Da questa contraddizione nacque abbondanza di grandi cuori, la cui estrema ribellione, era la straordinaria capacità di ordinare al proprio battito: “fermati!
Sovrabbondanza di nobili spiriti, i quali il mondo delle ombre, con la sua quiete appariva un felice approdo.
Fiorirono statisti e il tempo presente non volle fluire in armonia con loro, essi dovettero creare attingendo al passato, per agire in vista del futuro. Molte furono le battaglie, dove il sangue si cimentò in vittorie e in disfatte diverse da quello dello spirito. Una qualità che tutti gli altri considerano il connotato distintivo tedesco: ossia l’ordine, viene sempre sottovalutato, se non si è in grado di riconoscerlo come l’immagine della libertà riflessa in uno specchio di acciaio.
L’ubbidienza è l’arte di ascoltare e l’ordine è la disposizione ad accogliere la parola. La disposizione ad accogliere il comando che trascorre come un fulmine, dalla cima alle radici, ognuno in ogni cosa, trova il suo posto nell’ordine feudale e il capo della nazione è riconoscibile dal fatto che egli è il primo servitore, il primo soldato, il primo operaio.
Perciò sia la libertà che l’ordine, si riferiscono non già alla sua società, bensì allo Stato e il modello di ogni struttura è la struttura militare, non certo il contratto sociale.
Quindi la nostra forza esterna è assicurata, se nessun dubbio sussiste su chi deve guidare e chi deve seguire”.
Mai come in queste sgradevoli parole, Jünger si era tanto allontanato dalla idea di cultura, tipica di quello illuminismo, che continua ad essere malgrado tutto il segno distintivo della nostra civiltà. Quello illuminismo che in nome del logos, fa si che le nostre donne mostrino la loro bellezza che è fatta per essere mostrata e non si nascondano in una specie di armatura cupa e tetra che non le fa respirare e le uccide, annientandole.
Ho usato solo questo esempio come invocazione di una difesa culturale (che è l’unica difesa possibile) poiché pochi mesi dopo già la concezione del mondo di Ernst Jünger si capovolgeva e cominciava ad assumere un’altra luminosa direzione, quella che ha fatto sì che io tanto amassi questo autore.
Nel Trattato del Ribelle (edizioni Adelphi) Ernst Jünger si presenta in modo definitivo nella figura che gli è congeniale: quello dell’anarca, non dell’anarchico; ossia colui che riesce a far coesistere la ribellione allo stato puro con un senso aristocratico della vita, in cui l’estetica sia la motivazione più alta, più morale, più incline alla salvezza dello spirito.
Per approfondimenti:
_Ernst Jünger, Trattato del Ribelle, Adelphi Edizioni
_Ernst Jünger, Nelle Tempeste d’acciaio, Edizioni Guanda
_Ernst Jünger, Boschetto 125
_Ernst Jünger, Giardini e strade, Edizioni Guanda
_Ernst Jünger, la battaglia come esperienza interiore, Edizioni “la mala parte”
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