24 Mag Rappresentare l’Italia nel Nuovo Mondo: A. Tarchiani (1)
di Dario Neglia del 24/05/2016
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia era un paese in macerie.
Lo era dal punto di vista materiale ovviamente, con un sistema economico-produttivo messo allo stremo dal conflitto, ma ancor di più lo era considerando gli aspetti immateriali. È stato scritto con parole caustiche: L’Italia del 1939-40 era già una grande potenza sui generis: era “l’ultima delle grandi potenze” o – come si diceva sin dall’800 – “la prima delle potenze minori”. Ma l’Italia che esce dalla seconda guerra mondiale è piuttosto e senz’altro “l’impotenza” fatta persona .
Per la seconda volta, e forse anche in modo più clamoroso della prima, era stato confermato il cliché che voleva gli italiani infidi e traditori. Le vicende dell’8 settembre, la fuga del Re da Roma, avevano lasciato strascichi pesanti, permettendo da un lato di salvare ciò che restava formalmente della Monarchia, ma infliggendo allo stesso tempo un colpo mortale al prestigio di casa Savoia.
Il paese era insomma prostrato dalla guerra civile, frantumato nella propria coscienza nazionale, faticosamente impegnato nel costruire un progetto politico per il futuro e disperatamente bisognoso di «progresso economico e sicurezza militare» .
In un tale contesto si ripropose – per quei celebri corsi e ricorsi storici – una situazione simile a quella dell’immediato post-Unità: come dopo il 1861, così anche nel ’45 la condizione politico-istituzionale interna al paese era di una fragilità tale, che – in breve – la sopravvivenza stessa dello Stato dipendeva dalle azioni delle potenze straniere.
La politica estera diveniva, quindi, il campo principale sul quale giocare le proprie carte, ripartendo da zero, «da una matita e da un foglio di carta» , come pare avesse detto Badoglio a Brindisi, con la consapevolezza che non era più permesso commettere sbagli perché ogni singola mossa sarebbe stata decisiva.
L’Italia doveva acquistare, come disse Churchill, «il biglietto di ritorno» verso la politica internazionale, da cui evidentemente le vicende del secondo conflitto mondiale avevano ormai esclusa. Ed in quest’ottica entra in gioco la diplomazia.
Il rilancio della politica estera italiana andava attuato ricostruendo in primis proprio l’intera rete diplomatica, anch’essa distrutta dal conflitto. Ed occorreva più che mai fare scelte ben ponderate.
Quando, infatti, dopo l’8 settembre e la formazione della Repubblica di Salò, venne chiesto ai vari esponenti del corpo diplomatico di schierarsi, pochi furono quelli che seguirono Mussolini, ricordando il loro giuramento di fedeltà fatto nei confronti del Re. Nonostante questo, non vi era a quel tempo abbondanza di funzionari al Ministero degli Esteri, complice anche la famigerata infornata del 1928, che grazie alla tessera del PNF aveva fatto entrare nella “carriera” numerose personalità di nomina politica (ora chiaramente messe ai margini). Risultava insomma difficile, adesso, scegliere i Capi Missione per le sedi più importanti: segnatamente le principali capitali occidentali.
Nel dicembre 1944 De Gasperi fu chiamato a ricoprire il dicastero degli Esteri e fece una scelta deliberata: andare a pescare tra gli esponenti di spicco dei principali partiti anti-fascisti dell’epoca. Questa strategia si basava sulla nomina politica di personalità che potessero offrire una nuova immagine del paese una volta all’estero, che potessero fungere da specchio della “nuova Italia” appunto, per rimarcare con forza la discontinuità col recente passato fascista. Data la particolarità del caso, era preferibile inoltre che esse conoscessero già a sufficienza i paesi di accreditamento, e che fossero in qualche modo “in sintonia” con l’ambiente politico del luogo. Così a Londra fu inviato il conte Carandini, liberale; in Francia il socialista Saragat, che vi aveva vissuto durante l’esilio; ed a Mosca, unica eccezione, il diplomatico di carriera Pietro Quaroni, ma solo per ragioni puramente logistiche. Quaroni, al momento della nomina, si trovava a Kabul, quindi trovandosi già “oltre le linee” era l’unico che avrebbe potuto raggiungere l’Unione Sovietica agevolmente. Oltre a ciò, egli era anche uno dei pochi diplomatici italiani dell’epoca a conoscere il russo.
Restava vacante la sede più importante dal punto di vista strategico: Washington.
L’egemonia statunitense sulla seconda metà del Novecento non è una sorpresa per chiunque abbia una minima conoscenza storica del periodo. L’America fu per l’Europa fonte di protezione militare e di sostegno economico, modello di crescita e di articolazione politica, finanche il processo di unificazione europea fu stimolato dal volano statunitense, come non tutti forse sanno. Ma se questa dipendenza era valida per buona parte delle nazioni europee, lo era a fortiori per l’Italia. Non esisteva, a conti fatti, altro paese che avrebbe potuto assicurare quella crescita economica e quella sicurezza militare di cui il nostro paese aveva bisogno, se non l’America.
Per la carica di primo ambasciatore d’Italia del dopoguerra negli Stati Uniti, De Gasperi scelse infine Alberto Tarchiani, sessantenne giornalista ed esponente politico di spicco del Partito d’Azione, che aveva vissuto a lungo in passato negli Stati Uniti, prima come corrispondente e poi esule dal fascismo.
Il rapporto tra i due iniziò con una certa diffidenza da parte dello statista trentino, ma in seguito sarebbe divenuto molto più stretto, con Tarchiani a fungerne da «occhio e […] mente negli Stati Uniti, paese che [De Gasperi] conosceva poco e rispetto a cui non si muoveva con la stessa sicurezza che in Europa.
Ed è utile ed interessante studiare il decennio di Tarchiani a Washington, perché – stante la sede di destinazione ed il periodo storico – egli si trovò a misurarsi con tutti i nodi fondamentali e dirimenti della politica estera italiana dell’epoca, i quali toccarono sempre Roma passando però per Washington.
Rappresentare un paese quale l’Italia nel 1945 non era di certo compito facile.
La classe dirigente italiana, infatti, fondò la condotta della politica estera dopo il Secondo Conflitto mondiale su due ordini di ragionamento, entrambi a dir poco fallaci: il primo era che «la guerra era stata perduta dal fascismo, non dalla nazione italiana», distinzione assai scabrosa, di cui gli interlocutori esteri difficilmente avrebbero colto l’eventuale veridicità. Tarchiani scriverà pure nel suo diario che «vi erano anche coloro che, per essere sempre stati avversi all’avventura fascista all’interno e all’estero, non si sentivano minimamente colpevoli, [ed] avevano sempre sostenuto che l’Italia era stata vittima di un colpo di Stato e di poteri arbitrari e irresponsabili, e non poteva essere chiamata a risarcire danni da cui essa stessa aveva, e più di ogni altro, subìto nocumento e offesa». In secondo luogo era presente il concetto che «il mondo, dopo il conflitto, sarebbe stato retto dalle stesse norme che avevano regolato nell’anteguerra i rapporti fra gli Stati» , anche in questo caso riflessione che mancava di cogliere lo spirito dei tempi che si preannunciava, ossia l’irrigidimento prodotto nelle relazioni internazionali dall’imminente conflitto bipolare.
Essendo queste le premesse e le aspettative italiane, non meraviglia che i primi anni dopo il ’45 furono tutti un inanellarsi di delusioni e fallimenti per Roma, per De Gasperi e per Tarchiani. Il primo smacco che la “nuova Italia” dovette incassare, in ordine di tempo, fu la mancata ammissione alla Conferenza di San Francisco, e quindi alla costituenda Organizzazione delle Nazioni Unite. Nonostante il motivo ufficiale fosse solo che la lista dei paesi invitati era già stata diramata e quindi immodificabile, la realtà era che si voleva impedire a Mosca di sollevare una questione analoga con i tanti altri paesi del blocco comunista anch’essi rimasti fuori dal consesso.
A nulla valsero le perorazioni dell’ambasciatore presso il Dipartimento di Stato, Roosevelt prima e Truman poi; a nulla servì rimarcare che «dopo tanti sacrifici, tante rovine, tante prove di buona volontà» il popolo italiano fosse ancora considerato «il paria della situazione internazionale, il povero che si lascia alla porta».
Futile fu appigliarsi al fatto che l’Italia «malgrado le sue attuali sventure […] [fosse] la più grande delle Nazioni escluse, a vario titolo, dalla Conferenza».
Addirittura foriero di un’altra grave delusione fu l’idea, venuta allo stesso Tarchiani, di propiziare l’ingresso italiano a San Francisco con un’ingenua e intempestiva dichiarazione di guerra italiana al Giappone, che era ormai in ginocchio ma non ancora battuto.
La dichiarazione alla fine ci fu, perché Tarchiani si era esposto troppo con i suoi interlocutori americani, ed ovviamente si trattò solo di un gesto a dir poco simbolico, ma non servì a nulla.
Non solo l’Italia non sarebbe stata ammessa all’ONU, ma per di più si aggiungerà la beffa al danno, e il Trattato di pace siglato tra Giappone e Alleati non menzionerà in alcun punto l’Italia . Ma la rielaborazione della perdita di status del nostro paese doveva ancora passare la fase più acuta.
Chi si accosta ai diari, corposi, scritti dall’ambasciatore Tarchiani durante il suo decennio di permanenza a Washington a primo acchito potrebbe restare spiazzato: da lettore inesperto della materia ci si potrebbe stupire infatti che l’argomento principale di più di due terzi dell’opera sia (apparentemente) privo di legami con gli Stati Uniti: ossia una città oltreoceano, situata a più di settemila chilometri ad Est di distanza: Trieste. Lo stupore, tuttavia, sarebbe inadeguato.
A partire dalla notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 1945, quando la città di San Giusto fu invasa dalle truppe di occupazione jugoslave che vi rimasero per oltre un mese, la Questione Giuliana prima, e Triestina poi, sarebbe divenuta nelle parole dello stesso Tarchiani «il problema territoriale dominante per la diplomazia italiana».
Il confine nordorientale del nostro paese verrà amputato dell’Istria, in seguito al Trattato di pace che l’Italia fu costretta a firmare alla Conferenza di Parigi del ‘47. Subìta l’onta della perdita di territorio, ormai saldamente controllato dalle truppe del Maresciallo Tito e per liberare il quale sarebbe occorsa una vera e propria nuova offensiva a guerra ormai conclusa, l’Italia dovette incassare un altro torto spaventevole: la perdita della stessa Trieste.
In sede di stesura del Trattato si decise di seguire la proposta francese che prevedeva la divisione del territorio giuliano, conteso tra Italia e Jugoslavia, in due parti: la Zona A e la Zona B. Quest’ultima comprendeva l’Istria e sarebbe andata sotto il controllo di Belgrado, la prima invece includeva Trieste e sarebbe stata controllata dagli angloamericani del GMA . Nei diari di Tarchiani, il cosiddetto Territorio Libero di Trieste (TLT) formato appunto dalle due zone, viene definito senza mezzi termini «un mostruoso aborto, nato dal connubio del principio apparente di giustizia con una effettiva sopraffazione».
Nato per essere solo una sistemazione provvisoria, il TLT si sarebbe invece stabilizzato nel tempo, nonostante gli sforzi di De Gasperi, e Tarchiani in primis, per tentare in ogni modo di sanare la «ferita principale» ricevuta dall’Italia quale punizione per le colpe passate.
Da tale punto di vista, non deve meravigliare dunque che l’ambasciatore avvertisse come se in qualche modo la missione per Trieste fosse uno dei principali compiti che gli erano stati affidati. Era scontato che le leve principali da muovere fossero quelle statunitensi, essendo l’America il principale paese che poteva fornire aiuto e supporto all’Italia.
Eppure il cammino per risolvere la questione sarebbe stato molto lungo.
Il biennio ‘47-’49 apportò i primi successi alla politica estera italiana.
La guerra fredda ormai incombeva, granitica presenza, contrasto prima silente ma poi vie più palpabile tra Occidente e blocco sovietico.
L’Italia – che peraltro era territorio di confine tra i due blocchi (a causa di Trieste, poiché Il 5 aprile 1945 Tito aveva siglato un trattato di assistenza e mutua collaborazione con Stalin) – aveva aderito prontamente al Piano Marshall, trattandosi unicamente di ricevere finanziamenti; ma quando, a partire dal 1947, si cominciò a parlare di alleanze militari, e riarmo, per contrapporsi alla sovietizzazione già incipiente nell’Est-Europa, a Roma si capì che adesso si trattava di fare una chiara scelta di campo.
Tutti i diplomatici dell’epoca, ma Tarchiani – ancora una volta meglio degli altri – avvertirono chiaramente, compresero, e diedero comunicazione a Roma, del fatto che era ormai prossima la creazione di un sistema organico di difesa e cooperazione politica tra le nazioni europee e gli Stati Uniti.
Restarne fuori sarebbe stato un errore strategico di gravità incalcolabile.
Sebbene a posteriori possa risultare difficile immaginare che il nostro paese potesse abbracciare il campo comunista, avendo già beneficiato degli aiuti dell’European Recovery Program e soprattutto essendo stato liberato dalle forze alleate, ciò nondimeno va detto che i venti del neutralismo terzaforzista spiravano in modo consistente, alimentati dalla sinistra socialiste, dalla Chiesa, e da una parte della stessa Democrazia Cristiana.
Bisognava dunque decidere, ma De Gasperi aveva capito intelligentemente che, prima di discutere di una questione cruciale del genere, andava superato lo scoglio delle elezioni politiche. Pertanto una volta che le consultazioni dell’aprile 1948 ebbero consegnato la vittoria alle forze che chiaramente si identificavano col blocco occidentale , poté ragionarsi in modo approfondito dell’adesione o meno dell’Italia al futuro Patto Atlantico, e delle condizioni a cui farlo.
Nell’estate di quell’anno si ebbe una fitta rete di comunicazioni scritte tra i principali ambasciatori dell’epoca ed il conte Sforza, nominato ministro degli Esteri l’anno precedente . Partendo da un documento dell’ambasciatore a Mosca, Manlio Brosio, in cui si sosteneva che la scelta migliore da cui il paese avrebbe più beneficiato era la neutralità (!!), si svilupperà un vero e proprio “carteggio sulla scelta di campo”, in cui Tarchiani sarà uno dei critici più spietati delle tesi brosiane, dimostrando ad abundantiam che la neutralità non era scelta né logica, né fattibile e né conveniente per l’Italia.
In uno scritto dell’ambasciatore a Washington, rivolto a Sforza, che vale la pena riportare per intero, si testimonia non solo il vigore dialettico e concettuale del diplomatico, ma anche con quanta passione e coinvolgimento egli vivesse quei momenti:
[…] non può esistere equidistanza: – quando da un lato si sono ricevuti e si ricevono enormi aiuti materiali e politici, e dall’altro nulla, se non richieste di riparazioni;- quando da un lato vi è il piano Marshall in funzione da cui dipende notevole parte del nostro vivere e del nostro assestamento, e dall’altro soltanto la promessa di una palingenesi comunista; – quando da un lato si può essere armati e messi in grado di difenderci, e dall’altro, non v’è speranza di protezione, ma v’è invece minaccia d’insurrezione interna o d’invasione straniera; – quando da un lato v’è chi ci vuol dare Trieste e dall’altro chi ce la vuol togliere; chi ogni giorno ci appoggia con ogni sorta di interventi, di agevolazioni e di favori da noi richiesti, e chi, ogni giorno ci ostacola (perfino nel caso di un modesto posto nelle N.U.); – quando da un lato vi sono gli Stati Uniti con interessi italiani enormi (e tra gli altri quello di molti milioni di emigrati del nostro sangue, il cui apporto all’Italia è noto) e dall’altro l’U.R.S.S. che d’italiani non ha che sepolti e dispersi; “Equidistanza” non mi sembra né parola né fatto possibile. Perciò sono costretto a ripetere una volta ancora: cerchiamo di proteggerci quanto è possibile prima che sia troppo tardi, appoggiandoci fermamente a coloro che hanno, secondo ogni ragionevole previsione, fondate probabilità di vincere una guerra che purtroppo, per moltissimi sintomi, mostra di avvicinarsi .
De Gasperi e Sforza, tuttavia, erano riluttanti a schierarsi apertamente; forse memori ancora del clamoroso disastro che era stato il Patto d’acciaio, ed in fondo consapevoli della scarsa voglia con cui l’opinione pubblica italiana voleva sentir parlare ancora di alleanze militari. Di certo essi non erano in grado, quasi per un blocco psicologico, di mandare quel forte segnale di buona volontà, sicuro e definitivo, che gli Stati Uniti si aspettavano per inserire anche l’Italia nel sistema difensivo occidentale. Si tenga conto che militarmente l’Italia di quegli anni era a tutti gli effetti incapace di rispondere a qualunque attacco le fosse portato. Che ciò fosse dovuto, in buona parte, anche al contingentamento imposto al naviglio di guerra, all’esercito, ed all’aviazione, dal Trattato di pace punitivo, è di certo un altro aspetto della questione da tenere in buona considerazione.
Washington infatti non era tendenzialmente ostile ad accettare un partner come Roma, che – si consideri – sarebbe stato sostanzialmente un peso per gli altri membri dell’alleanza, obbligati a difendere il vero e proprio anello debole della catena. Tuttavia, per farlo, gli Stati Uniti si attendevano una prova inconfutabile del fatto che Roma volesse entrare a far parte dell’alleanza senza distinguo, mercanteggiamenti o clausole di altro tipo.
Si consideri che già in precedenza, a marzo del 1948, Francia, Gran Bretagna e i paesi del Benelux si erano uniti nel “Patto di Bruxelles”, in risposta alla precondizione richiesta dagli Stati Uniti per un impegno militare difensivo di Washington nei confronti del Vecchio Continente: ossia che si avesse una minima forma di coordinamento politico tra gli Stati europei. L’Italia, che era stata invitata ad aderire (ma ad aprile avrebbe avuto la consultazione elettorale, come si ricorderà) clamorosamente sceglierà di rifiutare, provocando «un irritato e diffidente stato d’animo» al Dipartimento di Stato.
In questo clima di attesa negli Stati Uniti ed irresolutezza in Italia, il nostro paese rischiò in modo pericoloso di essere seriamente lasciato ai margini del nuovo sistema difensivo atlantico, ed alla fine fu proprio grazie a Tarchiani se si diede la spallata risolutiva, recidendo – in altri termini – quello che ormai era chiaramente divenuto un nodo gordiano.
In risposta ad un ennesimo memorandum inviato da Sforza, titubante ed inconcludente come al solito, ma in cui si aggiungeva in modo significativo che per la prima volta all’ambasciatore era lasciata ampia facoltà di emendamento dello stesso testo , il diplomatico si avvalse largamente di tale facoltà concessagli ed una volta per tutte trasformò leggermente il senso del documento, in modo però che questa volta fosse ciò che gli americani volevano leggere .
Mentre la prima versione del testo recitava – come «candida espressione del nostro [scrive Sforza, N.d.A.] pensiero» – che il documento aveva come scopo «quasi esclusivo di far conoscere al Governo americano i nostri pensieri più intimi e l’autentico stato d’animo dell’opinione pubblica italiana», adesso nella versione rimaneggiata da Tarchiani i dubbi erano stati spazzati via. Si leggeva:
«[il] Governo italiano vede con favore sua eventuale partecipazione Patto attualmente in discussione, destinato organizzare difesa politico-militare Occidente, nonché a relative trattative»
E dopo aver sottolineato la necessità di avere delle rassicurazioni sulla situazione che il TLT rappresentava, avendo la promessa che questo sarebbe stato incluso nella zona di protezione (poichè, titubanze o meno, questo era il reale problema del Governo italiano. Si pensi che le truppe titine erano a poca distanza dalle mura triestine), si affermava con chiarezza:
«[…] qualora tale precisazione pervenisse [sul TLT, N.d.A.], Governo italiano sarebbe lieto mettere in moto, per partecipazione a Patto e a relative trattative, quella procedura che fosse per essere stabilita».
Era finalmente il passo decisivo per mettere in moto a cascata gli eventi successivi. Di certo non si può dire che, dopo il telegramma emendato da Tarchiani, la strada per l’ingresso dell’Italia nel Patto Atlantico si trasformò tutta in discesa, ma per lo meno il processo fu attivato.
Gli altri membri della costituenda alleanza continuavano a rimanere dubbiosi sull’utilità dell’ingresso di Roma, come è stato detto in precedenza, alcuni finanche ostili (e.g. i paesi del Benelux). Alla fine fu solo grazie alla Francia che il nostro paese poté essere ammesso, nelle vesti del suo ministro degli Esteri, a firmare il Trattato dell’Atlantico del Nord, il 4 aprile 1949.
Parigi aveva infatti fatto della partecipazione italiana addirittura una questione pregiudiziale e non per buonismo s’intende, ma per estendere il baricentro strategico più a sud, nel Mediterraneo, in modo da poter coprire anche l’area algerina. Fu, quindi, grazie a questo preziosissimo supporto strategico d’oltralpe che il nostro paese diventò uno dei membri originari della futura NATO; ciò nonostante, dal punto di vista interno (e anche per quanto riguarda l’azione diplomatica svolta presso gli Stati Uniti) l’operato di Tarchiani fu fondamentale. Non a caso, Egidio Ortona, a quel tempo diplomatico di sede appunto all’ambasciata d’Italia a Washington, scriverà queste parole nel suo diario:
Sono esattamente quattro anni che Tarchiani, allora rappresentante di un paese ancora nemico, presentava le sue credenziali al Presidente Roosevelt. Oggi è raggiante. Mi dice che se dovesse farsi guidare dal suo buon senso oggi scriverebbe a De Gasperi rassegnando le sue dimissioni per completata missione!
Per approfondimenti:
_S. Romano, Guida alla politica estera italiana, Milano, Rizzoli, 2002
_G. Mammarella e P. Cacace, La politica estera dell’Italia. Dallo Stato unitario ai giorni nostri, Bari, Laterza, 2010
_ P. Craveri, Prefazione a D. Fracchiolla, Un ambasciatore della “nuova Italia” a Washington. Alberto Tarchiani e le relazioni tra Italia e Stati Uniti 1945-1947, Milano, Franco Angeli, 2012
_A. Tarchiani, Dieci anni tra Roma e Washington, Mondadori, Milano, 1955
_A. Ciarrapico, Le ombre della storia, Aracne, Roma, 2012
_A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992, Bari, Laterza, 1998
_D. De Castro, La questione di Trieste, vol. I, Lint, Trieste, 1981
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