Il monito di Creta

di Federico Sergio Nicolaci del 02/04/2016

Sono atterrato a Creta in pieno agosto, il mese forse peggiore per visitare l’isola dove è nata Europa: ogni giorno, infatti, giganteschi aerei riversano nei due aeroporti internazionali dell’isola migliaia di turisti in maglietta e bermuda, ansiosi di lasciarsi alle spalle il pallore del Nord Europa e immergersi nel sole della più meridionale delle grandi isole del Mediterraneo.

Forse è anche per questo che segni della crisi a Creta non mi è parso, a dire il vero, di vederne: con il PIL pro capite più alto della Grecia e una fiorente produzione agricola interna, sembra che gli isolani se la passino molto meglio dei loro concittadini sulla terraferma.
Una prima conferma di questo mi arriva dal tassista rumeno che una delle prime notti mi riaccompagna al mio alloggio, in un villaggio sperduto sulle montagne vicino Retimno: “il lavoro non manca”, mi racconta, “almeno da Pasqua fino a inizio novembre”: abbastanza, comunque, da poter poi trascorrere tranquillamente i mesi invernali in Romania. Turisti da riaccompagnare nelle loro camere d’albergo dopo notti di feste e sollazzi ce ne sono sempre, mi spiega in un buon inglese mentre percorriamo tortuose stradine di montagna. Ma intanto siamo arrivati ad Argiroupoli: fanno cinquanta euro per il passaggio, senza ricevuta naturalmente.
Con i miei amici, abbiamo preso dimora in quelli che una volta dovevano essere due stanzoni al piano terra, che a un certo punto devono essere stati ristrutturati e resi indipendenti, evidentemente per accogliere i turisti. Il villaggio è inerpicato sulle montagne, eppure i visitatori non mancano: la sistemazione, per noi che siamo in sette, è molto economica, ma non c’è bisogno di essere particolarmente ferrati in economia per rendersi conto che dall’affitto di questi stanzoni in un paesino sperduto sui monti di Creta, la signora Evangelia in pochi giorni porta a casa un guadagno pari allo stipendio di un neolaureato in Italia – solo senza versare un centesimo di tasse. Di ricevute, infatti, neanche l’ombra: i conti vengono fatti a mano su foglietti svolazzanti. Una costante, questa, che ho riscontrato anche nella maggior parte dei ristoranti (non tutti) in cui mi è capitato di cenare. Mi colpisce in particolare il ragionamento del proprietario di una simpatica trattoria non troppo distante dalla nostra abitazione, in cui ci imbattiamo per caso di rientro dal mare e in cui decidiamo di tornare una delle sere successive (sul momento, infatti, non c’è posto: “bisogna prenotare”, ci urla il proprietario, un signore sulla cinquantina, mentre serve ai tavoli: “il numero lo trovate su Tripadvisor!”). Al termine della cena, quando i tedeschi se ne sono ormai andati, sazi e contenti, scambio con lui due chiacchiere, sorseggiando dell’ouzo: mi spiega di aver puntato sulla qualità delle materie prime, e di essere in questo modo ai primi posti su Tripadvisor. Non è raro infatti, mi confessa, che ai turisti vengano servite insalate greche con pomodori che non hanno mai visto il sole della Grecia o pesce che fu fresco tanto tempo fa, “prima di essere congelato”. Ma la qualità paga, i turisti spargono la voce sui media e il risultato è che Antonis ha più richieste che tavoli: in sostanza, la crisi non l’ha mai vista. E sull’euro non ha dubbi: “senza sarebbe peggio”. Ma l’austerity, i tagli, l’economia in recessione? “Con la dracma guadagnerei meno”, mi risponde lapidario. Capisco che per lui l’austerità è un concetto piuttosto lontano: dopotutto, le tasse non le paga, “perché dei politici non mi fido”, e per quanto riguarda il resto, mi mostra sul cellulare le foto del suo arsenale di fucili: “non ho bisogno di nient’altro per stare bene”, mi assicura.
Guardandomi attorno, durante i nostri spostamenti da una parte all’altra dell’isola, comprendo meglio il significato delle sue parole: ovunque noto un disordine diffuso, i centri urbani sono cresciuti intorno ai vecchi insediamenti veneziani senza alcuna logica o supervisione politica, e città come Iráklion lasciano un’impressione di rara bruttezza. In più punti sembra di trovarsi in qualche regione del Medio Oriente, non su un’isola greca. Case non finite tirate su nella più totale anarchia, scheletri di cemento in mezzo al nulla, strade dissestate, indicazioni contradditorie o assenti. Ognuno sembra fare a modo proprio, a Creta, come accade sempre dove manca una cultura politica condivisa.

Fortezza veneziana di Koules a Creta

Si percepisce l’assenza di regole, il predominio di una visione anarchica, individualista, etimologicamente idiota. Secoli di invasioni devono aver lasciato negli isolani un atavico sospetto nei confronti del potere e dello stato, quella stessa insofferenza che emergeva nelle parole di Antonis; e incentivato, per converso, un tirare a campare fondato sul proprio immediato interesse.
Quattromila anni fa, penso, su quest’isola è fiorita la prima civiltà europea e non a caso il mito greco racconta che sui lidi di Creta nacque Europa; oggi, però, mi chiedo se Creta, bagnata a sud dal Mar Libico, non sia piuttosto terra di confine dell’Europa, terra in perenne bilico tra la cultura europea e quella araba, che peraltro risuona chiaramente nella musica trasmessa ad oltranza dalle stazioni radio dell’isola.
Cosa è rimasto della civiltà minoica, dei suoi palazzi e delle sue città? Solo poche rovine, circondate da agglomerati urbani che contraddicono da cima a fondo lo spirito delle civiltà sopra cui sono state costruite. Ma questo non è forse vero anche per Atene, per Roma?
In un certo senso sì, e infatti Creta è forse l’emblema di quello che l’Europa non deve diventare: una civiltà in cui, del nobile spirito che ne ha segnato la nascita, è rimasto solo il nome e qualche rovina. Perché il rischio che l’Europa sta oggi correndo è, in fondo, proprio questo: quello di perdere ogni riferimento all’idea di società su cui è stata fondata, abbracciando principi che ne contraddicono lo spirito e ne distruggono l’identità. Quale identità? Quella che, come ebbe a dire Husserl, ci definisce in virtù dell’appartenenza ad uno spazio di senso comune; un senso che come europei – e qui il monito che Creta involontariamente rappresenta – siamo chiamati continuamente a riattingere, se vogliamo evitare che un giorno dell’Europa rimanga, come della civiltà cretese, solo il nome.
 
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