16 Mar In Europa vince chi resta, o forse no
di Lucia Ambrosio del 16/03/2016
Chi ha fatto degli studi classici la pietra angolare della propria cultura personale, scolastica o accademica, certamente ricorderà il mito di Europa, figlia del re fenicio Agenore e prima regina di Creta, consacrata al mito greco per la sua liaison con Zeus, se così può definirsi la violenza di cui essa fu oggetto per mano del Dio degli Dei.
Dalla privilegiata, seppur sfortunata, fanciulla ha tratto il nome il nostro Vecchio Continente, e da questo a sua volta l’Unione Europea, che ad oggi costituisce, se non altro in via formale, il più completo e realizzato esempio di organizzazione politica ed economica, fondata sugli insindacabili valori enunciati nei primi articoli del suo statuto[1]: libertà, dignità, democrazia, stato di diritto e rispetto dei diritti umani. Una grande vittoria, se teniamo a mente gli infelici trascorsi della principessa greca[2]. O forse no.
La crisi del debito sovrano che negli ultimi sei anni si è diffusa a macchia d’olio in tutta l’Unione Europea ci ha abituati a riconoscere ed accettare situazioni che prima d’ora erano considerate a dir poco fantascientifiche: per esempio, il fatto che stati tradizionalmente inseriti in contesti democratici di integrazione politica ed economica potessero rischiare di fallire come aziende insolventi, oppure che il circolo vizioso “austerità imposta dall’alto – piani di salvataggio” potesse imporsi come uno standard sempre valido e giustificato, senza alcuna considerazione del particolarismo politico e delle specifiche prerogative dei diversi stati. La situazione in Grecia è inarrestabilmente degenerata di anno in anno, tra il crollo progressivo degli indicatori economici e alcune modeste illusioni di ripresa, tra recessione e stasi.
Le elezioni primarie che il 26 gennaio di quest’anno hanno aperto le porte del palazzo del governo ad Alexis Tsipras, leader della falange socialdemocratica SYRIZA, hanno però diffuso in tutto il paese la sensazione che il cambio di corrente che si attendeva da tempo fosse infine arrivato. Il giovane premier ha, invero, ereditato dai predecessori Papandreou, Papademos e Pikrammenos un paese più che mai prossimo al tracollo, ma nonostante la situazione pressoché disperata, questi ha da subito adottato una condotta politica energetica imperniata sul costante dialogo con gli organi creditori dell’Unione Europea[1].
Si può affermare con esiguo margine di errore che l’uscita dall’Eurozona non sia mai stata una condizione desiderabile dal governo SYRIZA[2], ma l’ennesima, insindacabile, decisione di inasprire ulteriormente il regime di austerità imposto al paese[3] pur di portare a compimento entro oggi, 30 giugno, il saldo di una rata a nove zeri del suddetto debito estero, deve aver evidentemente fatto traboccare il vaso. Ignorare il malcontento popolare sarebbe equivalso a rinnegare del tutto la componente socialista su cui poggiano le fondamenta del partito stesso. Tsipras, diviso tra il desiderio di un altro-europeismo e quello di rimanere coerente alle sue stesse basi, ha infine scelto di interrompere le trattative con gli strozzini e di indire un referendum popolare al fine di “permettere alla prosperità e alla giustizia sociale di tornare nel paese”[4]. Il contenuto dell’ultimatum è stato ritenuto, a ragione, contrario ai valori e ai principi fondanti dell’Unione Europea, e ha dato adito alla formazione di prevedibili schieramenti contrapposti, sia dentro che fuori dal paese. Premesso che in una circostanza sì delicata è del tutto riduttivo ed inappropriato rimettere l’intera questione alla mera simpatia o antipatia per il governo in questione, chi scrive ritiene che ripassare brevemente le logiche e i principi che giustificano le misure di austerità al centro della polemica si riveli sempre utile, e non solamente al popolo greco. L’austerità non è, difatti, una punizione divina imprevedibile ed inevitabile riservata ai peccatori di hybris, ma il frutto di consapevoli linee di politica economica comunitaria, le quali trovano la propria raison d’être nell’esigenza di colmare un ingente debito estero.
La spiegazione ci viene fornita direttamente dagli assunti base della macroeconomia.
Per bilanciare nuovamente i conti con l’estero, le opzioni si riducono a due: aumentare il volume delle esportazioni, a patto ovviamente che il livello di crescita strutturale del paese lo consenta, oppure diminuire le importazioni. Quest’ultima soluzione si persegue, senza troppi giri di parole, svalutando il lavoro.
La disoccupazione produce salari più bassi e genera la riduzione dei consumi. Da minori consumi derivano minori importazioni. Da minori importazioni, il riequilibrio della bilancia commerciale che consentirebbe alla Grecia di continuare la sua permanenza tra i paesi dell’Eurozona. L’austerità diviene allora, allo stesso tempo, sia una conseguenza diretta dell’adozione dell’euro sia la condizione necessaria, anche se non sufficiente, affinché questo continui ad essere adottato. E’ una misura necessaria. O forse no.
Il default, allo stato attuale delle cose, sembra infatti inevitabile. La crisi è endemica e si è ormai estesa ad ogni settore dell’economia, avendo superato ormai da un pezzo il proverbiale punto di non ritorno. Il paese versa, terminale, in uno stato di irreversibile agonia che non lascia speranze di guarigione. Non solo il debito pubblico, ma anche quello privato, costantemente omesso dalla narrazione mediatica a copertura e giustificazione delle ripetute contrazioni economiche, anche la produzione industriale ai minimi storici, anche l’aumento incondizionato degli indici di disoccupazione, la dissoluzione del welfare state e del sistema sanitario nazionale, la povertà, la criminalità, i suicidi, ci restituiscono l’immagine di uno stato che non è stato ancora etichettato come failed unicamente per non gettare l’ombra del fallimento sull’Unione Europea e un’indesiderata ruggine sul premio Nobel da essa conseguito nel 2012, per aver garantito “l’avanzamento della pace e della riconciliazione della democrazia e dei diritti umani in Europa”[5]. Tsipras, come Teseo, ha scelto allora di cominciare a svolgere il rocchetto del filo della sua Arianna, il consenso popolare, mentre cerca di sfuggire al Minotauro a tre teste e al suo intricato labirinto.
Nel momento in cui questo articolo viene redatto, ancora non si conosce il testo del quesito referendario. Non si può dunque ancora questionare la forma e il metodo in cui esso sarà proposto a quanti il 5 luglio si recheranno alle urne a votare. Si può però fin da subito tentare di contrastare l’informazione monocolore diffusa dai media di tutta Europa, inevitabilmente concentrata sugli aspetti negativi del default e ben poco tesa ad evidenziare quelli positivi.
Qualora i greci votassero in massa per il NO, per la non accettazione di ulteriori riforme di austerità, va detto che il rischio maggiore coinvolgerebbe gli investitori esteri. Esso va dunque, a ragione, ridimensionato nell’ambito della narrazione mediatica sull’argomento.
I risparmiatori interni dovrebbero unicamente affrontare il cambio dell’unità di conto: la nuova valuta, che per comodità ribattezzeremo dracma, subirebbe una svalutazione di lungo periodo rispetto all’Euro. Il valore della dracma, comunque, finirà prima o poi per assestarsi, e anzi il riequilibrio dei conti di bilancio consentirà infine di raggiungere un cambio più realistico, più aderente alla realtà. Non ci si sarebbe mai potuti aspettare, d’altronde, che le unità monetarie di due paesi tanto diversi, sia per cause strutturali che per variabili endogene, potessero essere mai ritenute equivalenti. O forse no.
La manifesta insolvibilità della Grecia è una condizione impossibile da nascondere. E non si può sanzionare all’infinito un paese cui non viene data la possibilità di risollevarsi. L’allentamento momentaneo del cappio del debito estero permetterebbe piuttosto di impiegare i proventi del paese in nuove risoluzioni. Lo svincolamento della politica monetaria e valutaria dalle direttive della Troika consentirebbe di indirizzare la Grecia a un lento recupero della propria sovranità, non solo monetaria ma anche popolare.
Sarebbe la fine di un’umiliazione che perdura da troppo. Tsipras, non a caso, ha costruito il suo discorso alla nazione ad hoc, facendo leva sul riscatto dalla suddetta umiliazione e sul recupero dei valori di dignità, libertà e democrazia.
Quest’ultimo aspetto, in ogni caso, merita un approfondimento.
E’ effettivamente esagerato, nonché indice di una lettura superficiale dei fatti, considerare la scelta di rimettere il destino del paese a una decisione plebiscitaria come l’orgoglioso rigurgito della democrazia contrapposto alla dittatura de facto della Troika.
La questione del referendum va necessariamente ridimensionata: dal punto di vista formale non è poi così lecito mettere in discussione le indicazioni di un organismo in cui favore gli stati hanno deliberatamente rinunciato a parte della loro sovranità, e dal punto di vista fattuale non è neppure una novità. Già nel 2011, l’allora primo ministro George Papandreu aveva proposto di rimettere la decisione relativa all’accettazione o meno delle condizioni imposte dall’Unione Europea al popolo greco. La risoluzione è stata poi annullata nonostante il voto favorevole delle opposizioni, e Papandreu è stato costretto alle dimissioni in favore di un candidato con minore amor di patria.
Cos’è cambiato dal 2011? Perché il referendum è possibile ora? Sarà banale come risposta ma, alla luce di quanto già ribadito in precedenza, sono i dati a parlare: l’aumento del debito estero, il PIL nazionale ridotto di un quarto (dai 288 mld USD ai 200 mld USD nel giro di quattro anni), la disoccupazione alle stelle (quella giovanile schizzata dal 40% dell’inizio del 2011 al 51% della fine dello stesso anno, al 60% odierno; quella generale passata dal 15% circa dell’inizio del 2011, al 21% della fine dello stesso anno, al 25.6% del 2015).
Una rilettura del referendum in chiave della sua valenza simbolica sarebbe d’uopo.
Non tanto l’inequivocabile espressione della democrazia, quanto la narrazione in chiave democratica dell’unica strada in verità percorribile; lo svolgimento di una manovra politica volta a investire, con un tempismo perfetto, la BCE e il suo direttivo della responsabilità della situazione corrente. Tsipras ha chiaramente preferito una soluzione di impatto maggiore a un autonomo rifiuto delle condizioni imposte. La rimessa in gioco della questione a livello popolare non ha allora investito unicamente il regime economico del paese, ma ha anzi messo pesantemente in discussione la credibilità di quelle stesse istituzioni “democratiche” sovranazionali di cui tanto si erano desiderate, in quei primi anni di libertà da giogo delle dittature militari, la guida e la protezione. La mossa del referendum è stata arguta e lungimirante anche nella misura in cui si è tentato di ricompattare la maggioranza di governo, fin troppo frammentata in materia economica negli ultimi mesi. Fare ricorso alla forma più libera e democratica di partecipazione non ha fatto che riproporre in forma rafforzata il sostanziale deficit democratico all’interno dell’Unione Europea, un vero e proprio evergreen tra le polemiche dei suoi delatori.
Fa sorridere la situazione attuale se paragonata a quella dei ruggenti anni Ottanta, quando i paesi quasi facevano a gara pur di soddisfare i requisiti di accesso a quello che, non a torto, appariva come il club privé più esclusivo del mondo. L’appartenenza all’Unione Europea era l’espressione di uno status-symbol irrinunciabile; recuperando il parallelo con il mito greco, questa esercitava sui propri avventori una seduzione pari a quella della Maga Circe sui compagni di Ulisse. E tra l’Unione Europea e la Maga Circe che differenza c’è?
L’una ha trasformato uomini in maiali; l’altra i paesi mediterranei in PIGS.
Non è del tutto escluso che Tsipras e i creditori della Grecia possano sfruttare le ore che li separano dalla definitiva scadenza dell’ultimatum per ritornare al tavolo delle trattative nella speranza di trovare un punto di incontro in extremis. È d’altronde nell’interesse di entrambi: il primo per mantenersi coerente con quanto dichiarato in periodo elettorale, i secondi nella speranza folle ma motivata di mantenere in piedi la baracca e, ovviamente, di scongiurare o ritardare quanto più possibile il rischio di un effetto domino.
Va a tal proposito ricordato che un atteggiamento troppo accomodante da parte della Troika nella ricezione delle istanze greche rischierebbe di creare un pericoloso precedente per l’adozione di linee di condotta più morbide nei confronti degli altri paesi dell’Eurozona. I più passibili di contagio sarebbero, senza troppe sorprese, quelli in cui le forze euroscettiche stanno ingrossando le loro file, come l’Italia, o dove queste sono addirittura già arrivate ad occupare posizioni di governo, come la Francia.
Non manca ovviamente il rovescio della medaglia: rinnovare il sostegno alla Grecia equivarrebbe anche a venire meno ai principi regolatori del Meccanismo Europeo di Stabilità, in quanto risulta assente l’implementazione di nuove riforme concordate in seno al FMI. D’altra parte, il fallimento di Tsipras nel suo intento di sottrarre la Grecia alla sfera di influenza tedesca, oltre a risolversi in un gattopardesco epilogo per il suo paese, implicherebbe con ogni probabilità le dimissioni forzate del premier.
Qualora una soluzione di compromesso mancasse dal tavolo dei negoziati entro stanotte, la BCE provvederà a proclamare l’inappellabile stato di default della Grecia. La chiusura della borsa di Atene e delle banche fino al 6 luglio, giorno successivo al voto, si è resa necessaria per contrastare la corsa agli sportelli e la prevedibile crisi di liquidità che ne sarebbe seguita, pericoloso fattore di accelerazione del collasso. Il controllo dei capitali è invece stato imposto per prevenirne la fuga all’estero. La prospettiva del fallimento, fino a poche settimane fa mai neppure una volta presa in considerazione in nessuna assise europea, ha aperto la strada a una vasta gamma di inedite ipotesi.
Il risultato del referendum, nonostante tutte le premesse fatte, rimane comunque imprevedibile. L’accettazione del default non è scontata come si potrebbe credere, anzi: il clima di panico che si respira in queste ore nel paese potrebbe effettivamente dirottare la scelta del popolo greco, al netto di eventuali manipolazioni del voto, sull’accettazione del piano di salvataggio a fronte di nuove austerità. Con un pizzico di lungimiranza non è difficile immaginare che l’eventuale default della Grecia possa in potenza trasformarsi in un vero e proprio buco nero di deresponsabilizzazione in cui si fionderanno presto tutte le economie deboli dell’Eurozona; non solo i PIGS, ma anche altri debitori esteri come l’Ucraina, per cui un analogo ultimatum per il saldo dei debiti è fissato per il 24 luglio. Nei prossimi mesi, quale che si riveli l’esito del referendum greco, non c’è dubbio che assisteremo alla creazione di nuovi giochi di potere, sullo sfondo di uno scenario nazionale decisamente più complesso, tra chi sceglierà di appellarsi a un grado ancora maggiore di integrazione per contrastare le spinte centrifughe ed osteggiare la propagazione della sovranità democratica anche negli altri paesi, e chi invece individuerà nel cambiamento l’unica vera altra Europa, sulla scia del progetto di Tsipras.
Non va infine dimenticata l’influenza esercitata dal circostante scenario internazionale.
Qualora la Grecia dovesse fallire, non è del tutto da escludersi che la Federazione Russa non interverrà. Alcuni rumors non confermati affermano che addirittura la Cina sarebbe interessata a contribuire al parziale risanamento del debito greco, se questo servisse ad assicurarle una porta d’accesso privilegiata all’Europa e ai suoi commerci. Gli Stati Uniti potrebbero allora scegliere di sostenere la Grecia a loro volta, pur di sottrarla alla sfera di influenza della Russia e di ostacolare la discesa in campo della Banca dei BRICS, rivale del FMI, e, qualora la situazione degenerasse ulteriormente, dell’Organizzazione di Shangai per la cooperazione.
La straordinaria sete di provvedimenti del Congresso Americano negli ultimi tempi è sicuramente da ricercarsi nel periodo pre-elettorale; in difesa dei propri interessi sul Mediterraneo, non è difficile immaginare che gli USA preferirebbero sostenere i greci mentre sono ancora parte dell’Eurozona, ma è parimenti innegabile che se i sussidi dovessero giungere ugualmente dopo l’eventuale Grexit, ancora una volta assisteremmo a scenari inediti ed immaginati.
In una dichiarazione di ieri alla stampa, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha ricordato a tutti il suo incrollabile dogma: se fallisce l’Euro, fallisce l’Europa.
L’impressione di chi scrive è che tale affermazione debba essere necessariamente ribaltata.
Se fallisce l’Europa, come d’altronde ha già fallito in Grecia, fallisce l’Euro. È l’inevitabile conseguenza di aver voluto perseguire a tutti i costi l’approccio neofunzionalista e di aver cercato di far derivare l’integrazione e l’interdipendenza politica da quella dei settori economici. Scelta quanto mai infelice e dotata di scarsa lungimiranza, considerato il fatto che libertà, dignità, democrazia, stato di diritto, rispetto dei diritti umani e particolarità specifiche e strutturali dei singoli paesi sembrano essere stati tutti, non necessariamente in quest’ordine, o forse sì, calpestati.
Tra passi e contrappassi si realizza la parabola dell’Europeismo, nato dall’Unione Europea, corrotto dal liberismo, dall’ingenuità e dall’idealismo di chi fin dal principio se n’è fatto promotore e poi rivoltatosi contro il suo stesso procreatore, come i figli di Urano contro il loro stesso padre. Ma questa è un’altra storia, un altro mito. O forse no.
Per approfondimenti:
_[1] La Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea, riuniti nel termine Troika.
_[2] Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/07/grecia-tsipras-sposa-linea-draghi-tutto-possibile-per-salvare-euro/1319004/
_[3] Deregolamentazione del mercato del lavoro, tagli alle pensioni, riduzioni del salario minimo del settore pubblico, incremento sull’IVA, eliminazione delle agevolazioni fiscali per le isole greche, da sempre paradisi del turismo. Questi, in breve, i provvedimenti richiesti.
_[4] Fonte: http://www.eunews.it/2015/06/27/per-la-sovranita-e-la-dignita-della-grecia-il-discorso-di-tsipras-per-il-referendum/38109
_[5] Fonte : http://ec.europa.eu/news/eu_explained/121012_it.htm
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